SOCIAL HOUSING E DINTORNI

Il contributo di Paolo Di Vetta (AS.I.A. RdB) al convegno 'Roma e le altre. L'arte della rendita e i territori del conflitto metropolitano'

Roma -

Social housing e dintorni

 

La definizione comunemente accettata è quella data dal Cecodhas, Comitato Europeo per la promozione del diritto alla casa, che definisce l’housing sociale come “l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari”.

L’articolo 21 del Decreto Legge collegato alla Finanziaria 2008 stanzia 700 milioni di euro da finalizzare all’emergenza abitativa. 550 milioni così suddivisi, 30% nuove costruzioni, 20% acquisto, 50% manutenzione e recupero, vanno destinati soprattutto verso quei nuclei a rischio di sfratto e i restanti 150 milioni sono da considerare, come recita l’articolo 41, una sorta di apertura ai privati. Cioè servono a promuovere attraverso l’Agenzia del Demanio quegli strumenti misti che permettono l’acquisto, il recupero e la ristrutturazione di immobili pubblici.

Sostanzialmente si immaginano investimenti privati provenienti da Fondazioni bancarie o da Società d’Investimento Immobiliare Quotate, che anche in sinergia con le Casse Depositi e Prestiti delle amministrazioni pubbliche siano in grado di mettere in campo 1,4 miliardi l’anno  per 8000 appartamenti.

La stima del fabbisogno nazionale di case in affitto per Federcasa è di 600mila e così al ritmo di 60/80mila alloggi l’anno si calcola in dieci anni di risolvere il problema. Questa proposta abitativa è il social housing e si prefigge ottimisticamente di incidere sul reddito pro capite del 35%.

Gli enti locali e lo stato, insieme ai privati daranno vita a delle vere e proprie spa e i primi metteranno in gioco aree ed edifici, sgravi fiscali e riduzione dei costi amministrativi. Questa operazione propone a chi guadagna 1100/1300 euro mensili, un appartamento di 70 metri quadri a 400/500 euro di affitto. E il condominio? E le utenze?

Chi sono poi gli investitori privati e qual è l’approccio etico che dovrebbe consentirgli un profitto del 4/5%, rinunciando a ben altri ricavi garantiti fino ad oggi dal libero mercato? Prima tra tutte la Cariplo, con 3 progetti a Milano (750 alloggi), 1 a Crema (100 alloggi), altri a Bologna, Siena, Torino, Padova, Rovigo e Verona. I bandi aperti con i quali accedere ai finanziamenti però ultimamente stanno andando deserti, come è accaduto a Bologna.

Se diamo un’ occhiata al quadro europeo e al funzionamento dell’edilizia residenziale pubblica scopriamo cose molto interessanti. In Germania, con un reddito mensile di 1750 euro si accede ad un alloggio popolare e ci sono 11,6 milioni di case popolari. In Gran Bretagna 5,4 milioni, in Francia 5 milioni e in Italia siamo solo a 1,5 milioni di cosiddetti “alloggi sociali”, che comprendono sia l’edilizia agevolata che la sovvenzionata.

Se poi guardiamo alle risorse destinate all’edilizia residenziale pubblica troviamo i Paesi Bassi, la Svezia e il Regno Unito con il 3% del PIL, laddove nel nostro paese non si arriva nemmeno all’1%.

Osserviamo ora l’andamento delle vendite di residenze private in Italia. Dopo 8 anni di boom, 8 milioni di case in compravendita, si delinea una grande frenata. Questo avviene con un aumento dei prezzi del 51% e che a Roma è arrivato al 65%.

Nel dato delle vendite appare anche una nota curiosa, il 13% di queste riguarda gli immigrati. Un ruolo inimmaginabile per tutti quelli pronti a puntare il dito contro la loro presenza in Italia.

Ora, davanti alla crisi delle vendite e al difficile accesso al mercato dell’affitto e all’accensione di un mutuo da parte di una sempre più ampia fascia di cittadini e cittadine coinvolti/e nell’emergenza abitativa, l’housing sociale può essere declinato come soluzione possibile, anche per affrontare le numerose sofferenze di chi ha acquistato un appartamento e adesso non ce la fa a pagare la rata del mutuo. Molti sono stati costretti ad acquistare in assenza di proposte diverse e sono indebitati irreversibilmente. Non è dato sapere quanta consapevolezza ci sia in questo indebitarsi, sicuramente possiamo dire che il dato oggettivo delle numerose sofferenze sta inducendo anche i costruttori e le loro associazioni a produrre percorsi e proposte che non guardano solo alla vendita.

Semplificando si potrebbe dire che mantenendo una gestione liberista del mercato immobiliare si passa ad una sorta di gestione convenzionata degli immobili da costruire. Una convenzione così disegnata: suolo di proprietà pubblica, risorse economiche non speculative e soggetti gestori privato/pubblici, il tutto finalizzato alla definizione del cosiddetto “mercato intermedio”, orientato a produrre alloggi con un affitto di un terzo inferiore a quello di mercato. Una sorta di canone concordato obbligatorio.

I rischi evidenti sono legati a possibili interventi speculativi di chi detiene le risorse e alla possibile ulteriore svendita di aree e patrimonio pubblico. Non sembra essere sostenibile in questo senso la tesi di chi dice che basterebbe affidare tutto al “no profit” per avere le necessarie garanzie, esperienze anche più vecchie legate al cosiddetto “terzo settore” non sono state immuni dalle logiche di mercato.

Sarebbe ipotizzabile invece un’altra strada, meno orientata su nuove cementificazioni e con dentro una sfida ai potentati immobiliari. Certo ci vuole una capacità di mobilitazione autorevole e ampia in grado di costringere le amministrazioni locali e quelle centrali ad un cambio di passo. Si tratta di ribaltare la logica dei “diritti acquisiti” sulla quale è stato disegnato il nuovo piano regolatore generale di Roma.

In questa città si è molto costruito, poco pubblico e molto privato, e ora che siamo dentro una crisi delle vendite, molto incentivate anche grazie alla legge 431/98, non possiamo condividere l’idea che l’housing sociale venga proposto anche da sinistra come possibile soluzione dell’emergenza abitativa. Ci sembra molto di più una possibile via d’uscita dalla crisi per quei settori immobiliari che l’hanno determinata e per quei costruttori che come a Roma rivendicano un maggior pluralismo economico, intendendo questo come possibilità di tornare ad edificare in concorrenza con i grandi padroni della città: ACER, Legacoop, Confcoop, ecc. contro Caltagirone, Toti, Ligresti, ecc. Questo produrrebbe una nuova aggressione del territorio, si ragiona sull’uso delle aree agricole, anche sul ricatto rappresentato dal pacchetto di alloggi sociali derivante da queste operazioni.

Farsi attirare da queste sirene è molto pericoloso e soprattutto non sottrarrebbe la questione casa a una subalternità al mercato e a logiche liberalizzanti. È in parte la logica che Bersani ha voluto introdurre in altri segmenti di mercato. Dentro queste modalità c’è forte una logica di scambio: soldi pubblici non ce ne sono, il patrimonio pubblico rischia l’abbandono e il degrado, le aree destinate a ERP sono insufficienti,  inadatte o vincolate, c’è bisogno di nuovi alloggi per l’emergenza abitativa, che fare?

Intanto bisogna tornare ad una edificabilità diffusa e con una preminenza degli interessi immobiliari (qui c’è il portafoglio), il patrimonio pubblico va venduto per fare cassa e della manutenzione non se ne deve occupare più l’amministrazione. Se questa vi sembra una ricetta condivisibile è chiaro che l’housing sociale può divenire un orizzonte, ma nello stesso tempo può trasformarsi in una piattaforma del conflitto. Questo avviene se l’iniziativa si orienta sull’uso del costruito e contro i diritti acquisiti, immaginando vertenze metropolitane sulle centralità urbane senza dividere un fronte che oggi è unito dall’accresciuta precarietà reddituale e contro l’arroganza con cui la rendita ha voluto disegnare la città. Ripensare la metropoli da un punto di vista pubblico significa sottrarla dall’abbraccio mortale del mattone privato e dare vita a quei “blocchi precari metropolitani” esclusi dal diritto all’abitare e costretti dentro un progetto urbano insostenibile se non espulsi dai processi di valorizzazione immobiliare in atto. Dentro questo percorso è possibile incontrare anche un punto di vista ambientale e una ricerca di partecipazione sociale al disegno urbanistico della città con cui fare rete.