IMMOBILI DA VENDERE GRILLI, SACCOMANNI E IL SOLITO FORTUNATO

Da Il Fatto Quotidiano del 3 Maggio 2013

Di Giorgio Meletti

Roma -

Il decreto non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ma è pronto, firmato e timbrato dalla Corte dei Conti. Nasce la Sgr (società di gestione del risparmio) istituita nel 2012 dal governo Monti per valorizzare gli immobili pubblici attraendo capitali privati. E ne diventa presidente il potentissimo Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto del ministero dell’Economia dal 2001 al 2006 e poi ancora dal 2008 a oggi. Secondo Il Sole 24 Ore con questa mossa l’uscente Vittorio Grilli avrebbe voluto mettere in salvo Fortunato dallo spoil system, cioè dall’eventualità che il nuovo ministro Fabrizio Saccomanni non lo confermi sulla strategica poltrona da molti considerata più influente di quella dello stesso ministro. Ma per Saccomanni il problema principale non è solo non poter disporre della nomina in un ruolo chiave per la gestione dei conti pubblici. Numerose sono le incognite da risolvere intorno al tema della dismissione degli immobili pubblici, della quale si discute da almeno vent’anni senza apprezzabili risultati pratici.

     IN TEORIA, secondo la relazione tecnica che ha accompagnato il decreto con cui il governo Monti ha istituito la Sgr, lo Stato dispone di un patrimonio immobiliare vendibile di valore compreso tra 239 e 319 miliardi. Dentro c’è di tutto: beni del Demanio statale, ma soprattutto immobili di proprietà di regioni, province e comuni, che secondo le stime più attendibili valgono da quattro a cinque volte quelli dello Stato centrale. Nelle discussioni degli ultimi mesi è capitato assai spesso di sentire il partito degli ottimisti proiettato sull’idea che una massiccia dismissione di beni statali consentirebbe di dare una prima sensibile spallata al debito pubblico. Aggirandosi lo stock del debito statale sui 2 mila miliardi, la vendita in blocco dei 300 miliardi di immobili lo taglierebbe più o meno di un sesto.

     La realtà concreta è meno rosea. Nei decenni passati i vari tentativi (da Immobiliare Italia a Patrimonio spa, fino alle cosiddette cartolarizzazioni Scip1 e Scip2) hanno prodotto in tutto per lo Stato un beneficio finanziario di pochi miliardi di euro, non più delle dita delle mani. In questo caso le previsioni di Grilli hanno indicato l’obiettivo di far incassare allo Stato 15 miliardi all’anno. Da una parte si tratta di una cifra preziosa per i conti pubblici di questi anni magri, anche se poco rilevante ai fini dell’abbattimento del debito. Ma dall’altra parte anche l’obiettivo dei 15 miliardi appare problematico.

     A gestire operativamente la nuova società è stata chiamata Elisabetta Spitz, una delle massime competenze nel ramo dopo aver trascorso molti anni alla guida dell’Agenzia del Demanio. Risponderà a un consiglio d’amministrazione composto, oltre che da Fortunato, da Olga Cuccurullo, che già siede nel cda del Centro sperimentale di cinematografia, Antimo Prosperi, dirigente generale del Tesoro, e Federico Merola, ex direttore generale dell’Ance, la lobby dei costruttori.

     IN REALTÀ la nuova società è da considerare propriamente una start up, da costruire e organizzare e da far crescere a partire da un nucleo iniziale non faraonico. Probabilmente non sarà pienamente operativa prima della fine di quest’anno. Per adesso il governo ha fatto piani concreti prudenti. All’inizio la società avrà in dotazione un pacchetto di 350 immobili, del valore stimato di 1,5 miliardi di euro. Ma soprattutto la vocazione iniziale non è per niente quella della massiccia dismissione di immobili, quanto quella della loro valorizzazione. E al centro dell’attenzione ci sono soprattutto gli immobili degli enti territoriali. In pratica il mandato della Sgr sarà quello di individuare nel patrimonio di regioni e comuni immobili, oggi abbandonati, da mettere a reddito, non necessariamente vendendoli. Oppure immobili (per esempio scuole, ospedali etc.) bisognosi di ristrutturazione, adeguamento, messa a norma e via dicendo.

    La società di gestione del risparmio è, come dice la parola stessa, finalizzata alla raccolta di capitali, e per questo la sua operatività è subordinata ad autorizzazione della Banca d’Italia. Funzionerà costituendo dei fondi d’investimento immobiliari, che dovranno raccogliere capitali da investitori istituzionali, in primis gli enti previdenziali. I capitali dovranno essere utilizzati nelle operazioni immobiliari e debitamente remunerati. Operazione non semplice, più simile a un faticoso artigianato che alla grande operazione finanziaria. Che poi la Sgr costituisca i fondi dove far affluire massicciamente gli immobili pubblici, da vendere poi poco alla volta massimizzando il prezzo, è una prospettiva per adesso solo teorica. Sulla quale dovrà lavorare Saccomanni, se la durata di questo governo gliene darà il tempo.

 

La valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Alcuni profili di criticità.

di Sergio Pasanisi - 14 marzo 2013

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Sono molti anni oramai che la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico è entrata a far parte, seppur con connotazioni diverse, delle agende dei vari Governi che si sono succeduti alla guida del Paese, fino ai più recenti provvedimenti della c.d. spending review del Governo Monti. Questo provvedimento ha istituito dei fondi immobiliari costituiti da SGR pubbliche[1], che si sovrappongono all’obbligo, per tutte le amministrazioni pubbliche, a dare corso al processo di valorizzazione del loro patrimonio immobiliare, compresi gli enti locali che ai sensi della L. n. 133/08 avrebbero dovuto predisporre il “Piano delle alienazioni e delle valorizzazioni immobiliari”. Non ultimo il Governo si è spinto verso la strada della razionalizzazione del patrimonio, individuando un parametro di riferimento, per l’occupazione degli uffici, compreso tra 20 e 25 metri quadri per addetto, a cui le amministrazioni pubbliche si dovranno obbligatoriamente uniformare nella gestione dei propri spazi[2].

L’esigenza di valorizzare gli immobili pubblici deriva non solo dalle sempre più pressanti necessità finanziarie dello Stato e degli enti locali, ma anche dalla unanime convinzione che essi costituiscono per la collettività una risorsa sottoutilizzata o insufficientemente sfruttata, ovvero, talvolta, una semplice voce di costo.

Le diversità di posizione tra i vari orientamenti politici dei Governi succedutisi risiedono prevalentemente nelle modalità di valorizzazione che, come noto, possono essere molteplici, dalla semplice vendita alla cartolarizzazione, dall’efficientamento energetico alla ottimizzazione d’uso degli spazi. Ancora più accentuata è stata la diversità di orientamento sui soggetti pubblici che dovrebbero essere beneficiati dalla valorizzazione dei beni, in relazione alla circostanza che nella gran parte dei casi questa è legata indissolubilmente a provvedimenti di competenza dei vari soggetti pubblici detentori di vincoli, urbanistici, ambientali e paesaggistici, culturali e d’uso (relativamente a questo aspetto basti pensare al patrimonio in uso all’amministrazione della difesa).

Tali diversità si sono susseguite con l’alternanza dei Governi:

 - nel caso di orientamenti più “liberisti” e obiettivi di cassa più immediati, hanno prevalso politiche di vendita (p.e. acquisizioni Fintecna e aste pubbliche), ricorso a strumenti finanziari (p.e. cartolarizzazioni, SCIP, FIP, ecc.) nonché azioni di tutela nei confronti dell’apparato militare;

 - nel caso di orientamenti più “sociali” hanno prevalso invece provvedimenti che prevedevano azioni con ricadute economiche indirette, a più lungo termine e, non ultimo, territorializzate: concessioni d’uso nelle varie forme[3], trasferimenti agli enti locali rafforzati con l’introduzione c.d. “federalismo demaniale”[4], ecc..

Comunque, malgrado le significative diversità dei vari indirizzi alternativi, gran parte delle valorizzazioni avviate nel corso degli anni hanno portato complessivamente ad un notevole risultato che però ovviamente ha riguardato ciò che era più immediatamente valorizzabile e cioè il patrimonio disponibile, e cioè quello più facilmente sdemanializzabile, e pertanto non soggetto a vincoli particolarmente restrittivi, con esclusione quindi del patrimonio storico artistico[5] e del patrimonio sul quale gravano c.d. “usi governativi”, a iniziare dal patrimonio della difesa.

Tuttavia le valorizzazioni hanno avuto una portata prevalentemente, ma sarei portato ad affermare “esclusivamente”, limitata agli aspetti finanziari piuttosto che a quelli operativi, e cioè con modesti benefici reali e sociali in termini di riqualificazione urbana e sviluppo economico del territorio. E in questo senso credo che le cause possano essere individuate in tre principali questioni:

 - la complessità dell’attuazione dei progetti di sviluppo immobiliare, con particolare riferimento alla presenza di vincoli ricognitivi, conformativi e urbanistici[6];

 - la scarsità di operatori qualificati nello sviluppo di tali progetti (quelli che negli altri Paesi sono noti con il termine “developer”);

 - la complessità e a volte inadeguatezza delle procedure di valutazione economica degli immobili.

Un modello che racchiude tutte e tre le criticità è quello degli immobili ceduti a Fintecna il cui sviluppo, peraltro tutto a carico dei partner privati attraverso il sistema a rete delle società miste, è sostanzialmente fermo a causa della sopravvalutazione del patrimonio immobiliare per effetto di vendite con gare al rialzo, circostanza ulteriormente aggravata dalla recente congiuntura del settore.

Oggi quindi il patrimonio immobiliare pubblico sul quale si concentreranno le politiche di valorizzazione è prevalentemente costituito dal patrimonio storico artistico e dai beni strumentali, il primo soggetto ai vincoli del codice dei beni culturali e il secondo a quelli d’uso delle amministrazioni utilizzatrici. Su questi due aspetti è indispensabile fare un po’ di chiarezza.

Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare storico artistico, come noto, il nostro ordinamento prevede che il vincolo apposto sugli immobili determini l’obbligo della loro conservazione, il divieto di demolizione, di modifica o di uso non compatibile con il loro carattere storico od artistico e conseguentemente qualsiasi intervento su beni è sempre subordinato al rilascio di apposita autorizzazione da parte della Soprintendenza territoriale competente[7].

Note

1.  Cfr.

www.camera.it/465

, L’articolo 6, comma 7, della legge n. 183 del 2011 ha previsto che i fondi istituiti dalla SGR del Ministero dell’Economia possono acquistare immobili ad uso ufficio degli enti territoriali utilizzati dagli stessi o da altre pubbliche amministrazioni, nonché altri immobili di proprietà degli stessi enti di cui sia completato il processo di valorizzazione edilizio-urbanistico. DL. n. 95/2012 ↑

2.  D.L. n. 95/12 ↑

3.  Mi riferisco in particolare all’introduzione, con l’art. 3-bis D.L. n. 351/01 convertito dalla L. n. 410/01 e s.m.i., dell’istituto della concessione di valorizzazione, come recentemente modificato e integrato dall’art. 3, comma 14, del D.L. n. 95/2012 ↑

4.  Cfr. art. 19 L. n. 42/09. ↑

5.  Art. 10 del Codice dei BB.CC., D.lgs. 42/04 (ex lege n. 1089/39). ↑

6.  Al fine di agevolare le varianti urbanistiche è oramai acquisito il principio che parte della valorizzazione economica avvenga a favore del comune in cui si trova l’immobile. ↑

7.  Artt. 20 e 21 D.lgs. 42/04. ↑

La valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico. Alcuni profili di criticità.

di Sergio Pasanisi - 14 marzo 2013

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Autorizzazione che deve essere richiesta in base ad una specifica istanza corredata da un progetto di intervento. Il Ministero dei beni culturali ha pertanto competenza:

 - nell’eventuale trasferimento della proprietà dei beni pubblici a favore di privati;

 - nella individuazione di destinazioni d’uso compatibili con le caratteristiche del bene;

 - nella verifica, in fase di esame di progetto, che gli interventi di rifunzionalizzazione e restauro mantengano inalterato l’insieme architettonico e siano improntati al recupero unitario dell’edificio, nonché siano rispettosi dei caratteri storico artistici e di quant’altro necessario alla tutela del bene.

Inoltre il Codice dei Beni Culturali stabilisce che “lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani strategici di sviluppo culturale e i programmi relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica”[8], promuovendo altresì “l’integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati” attraverso Accordi di valorizzazione. Conseguentemente nel caso della dismissione di beni dello Stato, il Ministero si esprime sia in una fase programmatica (piano strategico) con la sottoscrizione dell’accordo di valorizzazione, che in fase di esame di progetto. Alla luce di ciò è evidente, da una parte, la scarsa utilità e la limitata espressività di un parere di rifunzionalizzazione di un immobile con “destinazioni compatibili” senza un progetto tecnico di restauro che dimostri la compatibilità delle nuove funzioni con l’insieme architettonico e i caratteri storico artistici del bene, e, dall’altra, il rafforzamento della discrezionalità dell’azione amministrativa che, come noto, dovrebbe invece basarsi sull’esistenza di circostanze di fatto o di elementi specifici. Del resto il rischio della discrezionalità dell’azione amministrativa è sempre più alimentata da norme che pur ampliando i poteri di tutela sulla base di legittime istanze sociali, sottraggono o limitano, al tempo stesso, le attribuzioni di responsabilità nei confronti di chi tali poteri deve esercitare.

Altro elemento di criticità nei processi di valorizzazione e talvolta vera e propria causa di fallimento delle valorizzazioni immobiliari, sia pubblici che privati, è la sopravvalutazione economica degli asset, che può essere determinata non solo per effetto dei valori inscritti “a libro,” qualora si operi all’interno di un contesto giuridico civilistico, ma anche e nel caso di immobili demaniali e con stime effettuate obbligatoriamente dall’Agenzia del Territorio. Dalla mia esperienza concreta infatti l’Agenzia utilizza, malgrado l’apparato metodologico da essa stessa prodotto[9], quasi esclusivamente i metodi di stima più semplici, ovvero quello del valore del costo o del valore di trasformazione, rispetto al metodo reddituale-finanziario che sebbene comporti competenze più specialistiche, consentirebbe una stima più rispondente alle singole specificità dei processi di valorizzazione. Tale questione non deve assolutamente essere sottovalutata in quanto un approccio metodologico o un stima non pertinente con il progetto di valorizzazione può determinare il fallimento delle iniziative. Situazioni di questo genere mi sono capitate personalmente in diversi casi, come per esempio nel caso di stime di strutture ospedaliere da dare in permuta per la realizzazione di un nuovo ospedale, dove il valore del bene in permuta dovrebbe essere correttamente valutato con riferimento ad un progetto di valorizzazione che preveda una nuova ipotesi di destinazione d’uso dell’area (in quanto evidentemente non potrà essere più ospedaliera), il deprezzamento per le demolizioni dell’immobile e, qualora non completate le relative procedure, i rischi derivanti sia da vincoli urbanistici (procedura di variante urbanistica) che ricognitivi (a iniziare dalla c.d. “verifica di culturalità” prevista dal codice dei beni culturali[10]).

Per quanto riguarda i vincoli d’uso da parte delle amministrazioni utilizzatrici è evidente come in tutti i casi, compreso il caso dei compendi immobiliari privati, vi sia una “naturale” resistenza alla cessione dei beni da parte di chi li utilizza, e che è portato a difenderli giustificandone, per quanto possibile, la necessità. Per facilitare la dichiarazione di non strumentalità da parte dell’amministrazione utilizzatrice si ricorre sempre a una negoziazione che, nel caso degli immobili della difesa è stata anche istituzionalizzata dal legislatore che ha introdotto un principio secondo il quale una parte dei risultati della valorizzazione economica siano attribuiti alla amministrazione detentrice del bene. Del resto oggi è sempre più difficile trincerarsi dietro finte esigenze visto anche che la razionalizzazione che oggi è resa obbligatoria anche con l’individuazione di standard minimi di superficie, che seppure in modo semplificatorio in quanto sarebbe più opportuno introdurre standard prestazionali, dovrebbe progressivamente portare a migliorare le performance funzionali ed conseguentemente economiche anche degli immobili strumentali, e consentire in via indiretta una loro valorizzazione.

Un’ultima e conclusiva considerazione che a mio parere non deve essere sottovalutata, in particolare in prospettiva, riguarda il malcelato diffondersi in settori sempre più ampi dell’opinione pubblica dell’idea che essendo gli immobili demaniali “beni pubblici”, il loro destino debba essere determinato non dallo Stato, ovvero dal soggetto pubblico che ne possiede la titolarità, bensì dalla collettività, troppo spesso rappresentata però da gruppi sociali o soggetti portatori di istanze politiche dietro le quali si celano, anche se non in via esclusiva, interessi particolari. La conseguenza di ciò è che sempre più una ristretta categoria o gruppo di cittadini si senta legittimato a rivendicare un uso esclusivo privato e discrezionale di beni pubblici inutilizzati, sottoutilizzati o abbandonati[11], giustificandolo come un uso a favore della collettività. I teorici di tale posizione affermano infatti che “Il bene comune è un bene che appartiene alla collettività, per identità culturale, sentimento di appartenenza, memoria ed espressione del territorio”[12], e conseguentemente danno legittimazione politica e successivamente giuridica ad occupazioni abusive, che non solo configgono con qualsiasi politica di valorizzazione demaniale ma anche con qualsiasi principio etico di rispetto per la “cosa pubblica”. Ciò non toglie la ragionevole necessità, non ultimo anche per farne crescere la condivisione con il partenariato territoriale, che la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, avendo di per sé finalità sociali, non debba essere accompagnata anche da azioni di respiro effettivamente sociale, che però dovrebbero essere individuate in modo specifico e caso per caso all’interno di ciascun progetto di sviluppo.

Note

8.  Art. 112 D.lgs. 42/04. ↑

9.  Cfr. Agenzia del Territorio – Direzione centrale osservatorio del mercato immobiliare e servizi estimativi “Manuale operativo delle stime immobiliari”. ↑

10.  Cfr. art. 12 del Codice dei BB.CC., D.lgs.42/04. ↑

11.  A titolo esemplificativo si vedano le vicende incrociate del Palazzo di Casapound e del Teatro Valle di Roma

www.teatrovalleoccupato.it

12.  Cfr.

www.lacittadeibenicomuni.it

 

Dl semplificazioni,Il Ghirlandaio: il governo dimentica ruolo Sgr

TMNews

Roma, 7 mar. (TMNews) - Il governo ha dimenticato di precisare il ruolo delle Sgr ( Le società di gestione del risparmio) nel piano di vendita del patrimonio demaniale previsto nell'ultimo decreto sulle semplificazioni. Nel decreto si parla infatti dettagliatamente del Demanio ma manca del tutto un riferimento alla Sgr, il braccio operativo indispensabile per la vendita degli immobili pubblici da parte del Demanio.

E' quanto ha sostenuto il portale di real estate Il Ghirlandaio. "E' un pasticcio - si legge sul sito - che certamente verrà risolto ma che attesta come il governo in carica non ha ancora messo seriamente la testa su una partita, quella delle privatizzazioni demaniali, che avrebbe invece un'elevatissima importanza potenziale".

07 marzo 2012

 

 

Semplificazioni: In Dl Si Parla Di Demanio Ma Non Di Sgr Per Dismissioni

di: Asca Pubblicato il 07 marzo 2012| Ora 17:17

 

(ASCA) - Roma, 7 mar - Nell'ultimo decreto sulle semplificazioni si parla dettagliatamente del Demanio ma non si fa menzione di alcuna Sgr, societa' per la gestione del risparmio che avrebbe dovuto essere il braccio operativo per le dismissioni. Anche nella direttiva sulla fiscalita' si accenna all'Agenzia, prevedendone alcune funzioni, ma non quella della Sgr. E' quanto rivela il sito di real estate www.ilghirlandaio.com, secondo il quale e' un pasticcio che certamente verra' risolto. Ma che attesta inoppugnabilmente come il governo in carica non ha ancora messo seriamente la testa su una partita, quella delle privatizzazioni demaniali, che avrebbe invece un'elevatissima importanza potenziale. Da una parte, e' acclarato che l'Agenzia ha il compito di ottimizzare la gestione del patrimonio demaniale e ''creare valore''. Dall'altra, non si dice piu' in che modo dovrebbe riuscirci. Eppure il tempo stringe. Si sa, ad esempio, che entro marzo l'Agenzia dovra' ricevere dai ministeri della Difesa e della Giustizia le liste dei loro immobili cedibili: sapere come procedere per ''valorizzarli'' sarebbe essenziale. Carceri e caserme non piu' utilizzate rappresenteranno il 20 per cento circa del totale dei beni demaniali vendibili che entro il 30 aprile dovrebbero essere finalmente identificati. Del resto, la manovra di aggiustamento del bilancio del governo Monti prevede dismissioni per 5 miliardi annui nel triennio 2012-2014, relativamente non solo agli immobili pubblici ma anche all'intero patrimonio dello Stato.

 

Inviato da Fortunato Vadalà il 02-05-2013 13:02

L'ultima nomina dell'ex ministro dell'economia: piatto da 300 mld

Pochi minuti prima di lasciare il dicastero dell'Economia l'ex ministro Vittorio Grillo nomina due suoi fedelissimi a capo della Societa' alla quale toccherà gestire il "fondo dei fondi" per le dismissioni. Dentro questa struttura confluirà un patrimonio di immobili pubblici stimato tra 239-319 miliardi.

 

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Poco prima di lasciare il Ministero dell'Economia Vittorio Grilli (nella foto) ha nominato il suo capo di gabinetto: Vincenzo Fortunato a capo della S.g.r alla quale toccherà gestire il "fondo dei fondi" per le dismissioni. Dentro questa struttura confluirà un patrimonio di immobili pubblici stimato tra 239-319 miliardi.  Era un punto del programma del governo Monti la volontà di dismettere gradualmente il patrimonio immobiliare dello Stato; sorprende però il blitz compiuto dal ministro uscente poche ore prima che il portone di via XX Settembre fosse attraversato dal neoministro Fabrizio Saccomanni, il grande avversario di Grilli per la carica di Governatore alla Banca d'Italia. C'è chi giura, scrive Dagospia, che la sera in cui ha lasciato il Ministero Grilli, in genere pallido ed emaciato, era sorridentente, rilassato e "con una carnagione rossa per la gioia, non per la vergogna".

 Vincenzo Fortunato è definito dal giornalista Stefano Livadiotti dell'Espresso", come "il più potente e temuto dei mandarini del sottogoverno italiano non ha hobby, si tiene alla larga dai salotti romani, passa le vacanze nella sua tenuta in Basilicata dove produce olio, e è dotato di una riservatezza totale". Ha lavorato con ministri di tutti i colori e come Capo di Gabinetto ne ha servito ben cinque (Tremonti, Siniscalco, Di Pietro, Monti quando aveva l'interim, e Grilli); questa volta avrebbe perso il posto dato che "Berlusconi ha preteso la nomina di Caricalà pur di toglerlo di torno" scrive Dagospia.

 Grilli ha nominato amministratore delegato della Sgr Elisabetta Spitz, la signora, ex-moglie di Marco Follini, che dal 1999 occupa ruoli importanti al ministero. Nel suo curriculum si legge che è un architetto, ma per questa donna di 60 anni conta di più la traversata che ha fatto negli uffici del Tesoro a partire dai tempi di Vincenzo Visco che nel '99 la inserì nel progetto di riforma del dicastero delle Finanze. Il rapporto con Visco è stato determinante perché nel 2000 la Spitz è chiamata a dirigere l'Agenzia del Demanio, un incarico che ricopre fino al 2008. La Spitz ha continuato la sua carriera irresistibile con Tremonti che nel 2002 istituisce la Patrimonio Spa, infilandola nel consiglio di amministrazione. Anche Prodi confermò la signora alla direzione dell'Agenzia del Demanio, un incarico interrotto dopo nove anni. A completare il board della Sgr ci saranno Olga Cuccurullo, avvocato e membro del cda della fondazione Centro sperimentale di cinematografia, Antimo Prosperi, capo della VI direzione del Dipartimento del Tesoro e amministratore della Consip, e Federico Merola, ex direttore generale dell'associazione dei costruttori edili (Ance).

 La società, guidata da Fortunato e partecipata al 100% dal ministero dell'Economia, potrà contare su un primo nucleo di circa 350 beni dal valore di 1,5 miliardi che il Demanio ha già individuato e che potrebbe presto conferire. Dopodiché toccherà alle amministrazioni centrali e e a quelle locali fare la loro parte, individuando i cespiti da dismettere dopo un'adeguata valorizzazione. Ma anche gli enti previdenziali saranno chiamati a contribuire destinando alle fortune del fondo una dote complessiva di circa 500 milioni nel triennio 2012-2014. 

Tutto ciò in attesa di capire se, in materia di dismissioni, il nuovo esecutivo (in generale) e il nuovo inquilino di via XX Settembre (in particolare) vorranno proseguire sulla strada tracciata dai loro predecessori. Che puntavano a reperire attraverso questa fonte 15 miliardi l'anno. In pratica un punto di Pil, che tornerebbe molto utile di questi tempi tra Imu da cancellare (in tutto o in parte), aumento Iva da scongiurare e ammortizzatori sociali da rifinanziare. 

 

DISMISSIONI PUBBLICHE E GESTIONE “FONDO DEI FONDI”, ISTITUITA LA SGR

Giovedì 02 Maggio 2013 10:20 Brevi - Normativa

Firmato dall'ex ministro dell'Economia Grilli il decreto con le nomine

Arriva la Sgr per la gestione del “fondo dei fondi” per le dismissioni pubbliche (ai sensi del decreto legge n. 87/2012, confluito successivamente in sede di conversione nella spending review).

Nei giorni scorsi il ministro uscente dell'Economia e delle Finanze Vittorio Grilli ha firmato il decreto di costituzione della Sgr (partecipata al 100% dal ministero dell'Economia) che sarà guidata da Vincenzo Fortunato (capo di gabinetto del Mef nel 2001 e poi nel 2008). Elisabetta Spitz, architetto ed ex direttore dell'Agenzia del demanio è stata nominata amministratore delegato della società.

Nel board della Sgr figurano anche i nomi di Antimo Prosperi (amministratore di Consip e alla guida della VI direzione del Dipartimento del Tesoro), Federico Merola (ex direttore generale dell'Ance) e Olga Cuccurullo (avvocato e membro del cda della fondazione Centro sperimentale di cinematografia)

 

Arriva il "fondo dei fondi" per le dismissioni pubbliche

di Eugenio Bruno e Marco Rogari1 maggio 2013Commenti (5)

Vincenzo Fortunato, Elisabetta Spitz (Imagoeconomica/Ansa)

All'improvviso la macchina delle dismissioni si è rimessa in moto. Grazie all'ex ministro dell'Economia Vittorio Grilli che, poco prima di lasciare il suo ufficio a via XX Settembre, ha firmato il decreto di costituzione della Sgr che gestirà il "fondo dei fondi" previsto dal decreto legge n. 87 del giugno 2012, poi confluito in sede di conversione nella spending review. Ma le sorprese non finiscono qui visto che alla guida della società il responsabile uscente del Tesoro ha nominato il suo capo di gabinetto Vincenzo Fortunato. Salvandolo così dallo spoil system che l'avrebbe potuto riguardare con l'arrivo di Fabrizio Saccomanni dietro la scrivania che fu di Quintino Sella.

Per gli esperti delle cronache di palazzo quello di Fortunato non è un nome qualunque. Capo di gabinetto del Mef già nel 2001, dopo una parentesi alle Infrastrutture con Antonio Di Pietro, il 57enne grand commis era tornato a ricoprire quell'incarico nel 2008. Ed era rimasto al suo posto anche con il passaggio dal governo Berlusconi all'esecutivo dei tecnici. Senza risentire dell'avvicendamento tra Giulio Tremonti e Vittorio Grilli.

Ma anche per la carica di amministratore delegato Grilli ha attinto a un'altra "vecchia conoscenza" della Pa: l'architetto Elisabetta Spitz, ex direttrice dell'Agenzia del demanio. A completare il board della Sgr ci saranno Olga Cuccurullo, avvocato e membro del cda della fondazione Centro sperimentale di cinematografia, Antimo Prosperi, capo della VI direzione del Dipartimento del Tesoro e amministratore della Consip, e Federico Merola, ex direttore generale dell'associazione dei costruttori edili (Ance).

Il decreto con le nomine ha già avuto l'ok della Corte dei conti ed è pronto a fare sentire i suoi effetti. Nelle intenzione del governo precedente, la Sgr e il "fondo dei fondi" erano il fulcro di un piano di dismissioni che poteva contare su un patrimonio potenzialmente aggredibile con un valore quantificato tra 239 e 319 miliardi. Ora si riparte. La società, guidata da Fortunato e partecipata al 100% dal ministero dell'Economia, potrà contare su un primo nucleo di circa 350 beni dal valore di 1,5 miliardi che il Demanio ha già individuato e che potrebbe presto conferire. Dopodiché toccherà alle amministrazioni centrali e e a quelle locali fare la loro parte, individuando i cespiti da dismettere dopo un'adeguata valorizzazione. Ma anche gli enti previdenziali saranno chiamati a contribuire destinando alle fortune del fondo una dote complessiva di circa 500 milioni nel triennio 2012-2014.

All'elenco potranno essere aggiunte le concessioni sui beni che l'Agenzia del demanio ha inserito nel progetto "valore Paese". Con quest'iniziativa l'Agenzia guidata da Stefano Scalera ha provato nei mesi scorsi a tenere alta l'attenzione degli enti locali sul tema delle dismissioni. Puntando su immobili spesso non utilizzati o sottoutilizzati su tutto il territorio nazionale. Attraverso due canali diversi: "Affidiamo valore" che sfrutta lo strumento della concessione/locazione (da un minimo di sei anni a un massimo di 50) per coinvolgere direttamente i privati (o gli enti) nella gestione e progettazione dell'attività di riqualificazione dei beni; "Valore Paese-Dimore" che punta a trasformare una parte del nostro patrimonio storico-artistico in contenitore delle eccellenze del made in Italy e che ha già in portafoglio oltre 100 cespiti. In 63 casi (28 dei quali in fase di startup) il processo di valorizzazione è già partito mentre gli altri 52 sono in attesa di una proposta. Ma il Demanio spera di incrementare la lista dei beni coinvolti visto che fino al 31 maggio Regioni, Comuni, Province ed altri enti proprietari potranno chiedere di aggiungere alla lista i loro immobili.

Tutto ciò in attesa di capire se, in materia di dismissioni, il nuovo esecutivo (in generale) e il nuovo inquilino di via XX Settembre (in particolare) vorranno proseguire sulla strada tracciata dai loro predecessori. Che puntavano a reperire attraverso questa fonte 15 miliardi l'anno. In pratica un punto di Pil, che tornerebbe molto utile di questi tempi tra Imu da cancellare (in tutto o in parte), aumento Iva da scongiurare e ammortizzatori sociali da rifinanziare.

 

 

L MONDO  /  finanza  / 14 Giugno 2012

Governo/ cessione immobili: ecco come interverrà la Cdp, da acquirente di "ultima istanza"

Il Mondo in edicola domani anticipa che gli enti locali potranno mettere gli asset in asta al miglior offerente. Solo in caso di mancata vendita subentrerà Cdp sgr comprando al prezzo stabilito in sede di advisoring

Roma, 14 giu - La Cassa depositi e prestiti (Cdp) interverrà nel piano di cessione degli immobili degli enti locali come acquirente di "ultima istanza". E' quanto anticipa Il Mondo in edicola domani entrando nel dettaglio dei provvedimenti di valorizzazione del patrimonio immobiliare annunciati ieri dal premier Mario Monti. Il progetto allo studio prevede che la Cdp, attraverso la controllata Cdp sgr, destinerà fino a 1 miliardo di euro per rilevare gli immobili dagli enti locali. Il fatto nuovo è tuttavia la modalità con cui la Sgr di Cdp intende acquistare. Il primo step prevede di individuare un elenco di beni sui quali gli enti locali e l’agenzia del Demanio abbiano già avviato un processo di valorizzazione. Un probabile ruolo in questa fase potrebbe, quindi, averlo la neonata fondazione Patrimonio Comune costituita dall’Anci e dall’agenzia guidata da Stefano Scalera. In pratica, i tecnici di Cdp Sgr valuteranno solo una lista di immobili già oggetto di delibere che, per esempio, ne hanno stabilito il cambio di destinazione e il percorso di valorizzazione. Una volta valutato l’asset, svolto l’intero lavoro di istruttoria e stabilito il prezzo, da parte di Cdp Sgr non si procederà però all’acquisto tout court. E’ a questo punto che partirà il secondo step. L’ente proprietario potrà infatti riservarsi di fare valutare l’immobile dall’Agenzia del territorio e metterlo in asta, puntando così ad ottenere un prezzo migliore rispetto a quello stabilito dalla controllata di Cassa Depositi e Prestiti presieduta da Matteo Del Fante. Perciò se il mercato immobiliare dovesse rispondere all’appello comprando a un valore superiore l’immobile andrebbe aggiudicato al miglior offerente. In caso contrario, Cdp Sgr svolgerebbe un ruolo per così dire di acquirente di ultima istanza, comprando ciò che aveva vagliato e valutato al prezzo stabilito in sede di advisoring. Il vantaggio per gli enti locali sarebbe quello di avere un compratore certo, sebbene Cdp si riservi comunque un margine di discrezionalità sull’acquisto, ma, soprattutto, i comuni eviterebbero il rischio di aste deserte con tanto di nuovi bandi a prezzi ridotti. La costituzione di un fondo aperto dedicato a questo genere di acquisti targato Cdp dovrebbe, insomma, sostenere il valore immobiliare degli enti e al tempo stesso esercitare un effetto volano spingendo gli altri operatori a comprare visto che verrebbero a mancare le opportunità per fare shopping a valori ribassati.

 

Società di gestione del risparmio

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Le società di gestione del risparmio (SGR) sono state introdotte in Italia con D. Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 e svolgono in via esclusiva l'attività di promozione e di gestione di fondi comuni di investimento, i quali appartengono alla categoria degli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio (OICR) assieme alle Società di Investimento a Capitale Variabile (SICAV). Le SGR possono anche essere autorizzate a svolgere la gestione individuale di portafogli di investimento ed il servizio di consulenza.

Le Sgr si classificano sulla base delle funzioni che ne qualificano l'essenza, potendo distinguere tra 'società promotrice' e 'gestore' (art. 1, lett. q, d. lgs. 58 del 1998), sulla base di un modello legale predisposto dalla normativa secondaria che appare in grado di contemplare le diverse esigenze di promozione e gestione (cfr. Lemma, 2010).

Al 31 marzo 2011 in Italia operavano 300 SGR[1], numero aumentato considerevolmente negli ultimi anni. Molte di esse appartengono ad un gruppo bancario.

L'associazione di categoria delle SGR è Assogestioni, con sede a Roma.

 

Normativa europea

L'introduzione delle SGR nel diritto italiano è avvenuta in recepimento della Direttiva europea 85/611/CEE. Istituti analoghi, caratterizzati dalla possibilità di istituire e gestire fondi comuni di investimento collettivo, sono dunque presenti in tutti i Paesi dell'Unione europea. In Italia, le società di altri Paesi comunitari equivalenti alle SGR, sono indicate con il nome di Società di Gestione Armonizzate (SGA).

Accesso all'attività

Per prestare l'attività di gestione collettiva del risparmio, la SGR deve ottenere un'apposita autorizzazione rilasciata dalla Banca d'Italia, sentita la Consob. Affinché tale autorizzazione sia concessa, devono essere soddisfatte le seguenti condizioni:

adozione della forma di società per azioni;

sede legale e direzione generale situate nel territorio della Repubblica Italiana;

capitale versato di ammontare non inferiore a quello determinato dalla Banca d'Italia (attualmente pari ad 1 milione €);

gli esponenti aziendali posseggono i requisiti previsti dal TUF;

la struttura del gruppo di cui la SGR fa parte non deve pregiudicare l'esercizio della vigilanza su di essa;

vengono presentati, insieme allo statuto e all'atto costitutivo, un programma concernente l'attività iniziale e una relazione sulla struttura organizzativa;

la denominazione sociale contiene le parole "società di gestione del risparmio".

La Banca d'Italia deve negare l'autorizzazione qualora non risulti assicurata la sana e prudente gestione.

 

Fondi comuni di investimento

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I fondi comuni di investimento sono fondi di investimento (Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio, OICR) che utilizzano strumenti finanziari detti "quote di fondi d'investimento" e che raccolgono il denaro di risparmiatori che affidano la gestione dei propri risparmi ad una società di gestione del risparmio (SGR) con personalità giuridica e capitale distinti da quelli del fondo.

Il Decreto legislativo n. 58/98 definisce il fondo comune di investimento come "il patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti gestito in monte".

In Italia i fondi comuni sono stati istituiti con la Legge n° 77 del 1983, anche se, a quella data, esistevano già una decina di fondi di diritto lussemburghese.

 

Caratteristiche

Raccolto il denaro presso i sottoscrittori i fondi comuni investono in valori mobiliari che costituiscono il patrimonio indiviso del fondo, di cui ogni risparmiatore detiene un certo numero di quote (la quota è la frazione di patrimonio unitaria del fondo di investimento ed ha un valore che cambia nel tempo in relazione all'andamento dei titoli nei quali il fondo investe). Indipendentemente dalla tipologia di fondo, tutti i partecipanti hanno gli stessi diritti: i guadagni o le perdite, dal momento che il fondo non garantisce un rendimento certo (a meno di alcune tipologie particolari di prodotti), sono in proporzione a quanto investito, o meglio, in proporzione al numero di quote in possesso.

I fondi comuni, essendo gestiti da professionisti del settore, permettono ai piccoli investitori, se ben consigliati, di sottoscrivere investimenti aderenti al proprio profilo finanziario, in termini di rischio/rendimento. Inoltre, attraverso i piani di accumulo, hanno avvicinato al mercato anche coloro che momentaneamente non disponevano di sostanziosi risparmi. In relazione agli obiettivi finanziari, al rischio e al rendimento atteso, il risparmiatore può scegliere tra diversi tipi di fondi: bilanciati, obbligazionari, azionari, di liquidità e flessibili. Esistono poi i fondi etici, che possono appartenere ad una qualunque delle categorie sopra enunciate.

Le principali categorie di fondi comuni

I fondi comuni di investimento possono essere classificati sulla base di molti parametri.

Una prima distinzione riguarda la modalità di distribuzione dei profitti:

fondi a distribuzione dei proventi, in cui le eventuali plusvalenze realizzate in un arco temporale predefinito possono essere accreditate - in parte o interamente - sul conto corrente del risparmiatore sotto forma di "cedola" semestrale o annuale;

fondi ad accumulazione dei proventi, in cui i guadagni rimangono all'interno del fondo e il sottoscrittore li realizza (cioè li trasforma in denaro contante) al momento della vendita delle quote.

Un'ulteriore distinzione, individua dal Regolamento del Ministero del Tesoro n. 228/99, deve essere fatta tra fondi chiusi e fondi aperti:

fondi chiusi: prevedono il rimborso (da parte della SGR che lo ha istituito) delle quote sottoscritte solo in periodi determinati. Sono caratterizzati da un numero di quote predeterminato ed invariabile nel tempo. Per garantire la possibilità di liquidare l'investimento, per i fondi chiusi la legge prevede l'obbligo di quotazione sul mercato entro un intervallo massimo di tempo dalla chiusura del collocamento; tale intervallo, inizialmente 24 mesi, ha subito successive modifiche normative che lo hanno portato a 12 mesi. Chi vuole liquidare il proprio investimento lo può quindi fare esclusivamente vendendo le quote sul mercato;

fondi aperti: sono caratterizzati dalla variabilità del patrimonio (che può quindi di giorno in giorno aumentare o diminuire in funzione delle nuove sottoscrizioni o delle domande di rimborso delle quote in circolazione) e rappresentano la forma più diffusa di fondo.

I fondi aperti vengono suddivisi, da un punto di vista giuridico, in:

I fondi di diritto italiano armonizzati UE sono i fondi gestiti da società italiane con sede legale in Italia e sottoposti alle direttive comunitarie n. 611/85 e 220/88 recepite nel nostro ordinamento con il Decreto Legislativo n. 83/92. La legge comunitaria prescrive una serie di vincoli sugli investimenti con l'obiettivo di contenere i rischi e salvaguardare i sottoscrittori, ad esempio:

non possono investire più del 10% del patrimonio in strumenti finanziari di un singolo emittente, in altri fondi, prodotti derivati o titoli non quotati nei mercati regolamentati;

non possono investire in strumenti derivati per la copertura dei rischi, per un ammontare totale che ecceda il valore netto del fondo.

I fondi di diritto italiano non armonizzati UE sono invece i fondi istituiti col provvedimento della Banca d'Italia del 20 settembre 1999 e caratterizzati da una maggiore libertà di investimento del patrimonio raccolto. Ad essi, infatti, non vengono applicati i vincoli e le limitazioni previste dalla legge comunitaria per i fondi armonizzati. Fanno parte di questa tipologia di fondi i fondi speculativi (o hedge funds) e i fondi di fondi.

I fondi immobiliari sono fondi comuni di investimento, costituiti in forma chiusa, che possono investire il loro patrimonio in specifici beni, in prevalenza a carattere immobiliare. Rilevano, in proposito, le analisi del processo di finanziarizzazione degli investimenti immobiliari (cfr. Lemma, 2006), che hanno affrontato in particolare la problematica relativa alla regolazione delle gestioni collettive del risparmio che operano in tale specifico settore. Nel riferimento alle dinamiche finanziarie di inizio millennio si evidenzia il crescente interesse dei risparmiatori per tale tipologia di investimenti; donde la significativa incidenza di detta forma di impieghi sugli assetti dei mercati di capitale, che risultano sempre più legati ad elementi di natura reale. L’esame della normativa speciale (primaria e secondaria) fa da presupposto ad un’indagine incentrata sull’identificazione di linee disciplinari volte ad assecondare il processo sopra delineato. Si dà, quindi, ampio spazio all’affermazione di tecniche procedimentali idonee a definire una struttura organizzativa ed un programma di attività preordinati a garantire una gestione professionale degli attivi patrimoniali. In tale contesto, la ricerca ascrive peculiare rilievo all’intervento di autodeterminazione rimesso alla SGR ed ai partecipanti ai fondi immobiliari: la prima chiamata a definire ed attuare i criteri guida della gestione ed i secondi ad esercitare le verifiche necessarie per l’ordinato funzionamento delle forme operative in questione. Si perviene, pertanto, alla conclusione che i fondi di cui trattasi assolvono a funzioni di stabilità, in seno al mercato finanziario, e di sviluppo, con riguardo a quello immobiliare.

Alcune tipologie

Di seguito sono esposte le principali caratteristiche di alcune tipologie di fondo comune, particolarmente rilevanti per la loro diffusione tra i risparmiatori.

I fondi speculativi (hedge fund)

Per approfondire, vedi Hedge Fund.

Gli hedge fund sono prodotti simili nella struttura ai fondi comuni di investimento. Rispetto a questi ultimi, si differenziano per la strategia di gestione adottata e per il numero di strumenti e tecniche a disposizione dei gestori.

Si distinguono dai fondi comuni tradizionali per i seguenti elementi:

personalità giuridica: gli hedge fund sui mercati internazionali assumono in linea di massima la struttura di fondi di investimento privati, nella forma, a seconda della sede legale, di partnership a responsabilità limitata (tipica dei fondi americani), società per azioni, fiduciaria, fondo comune;

limitazione all'ingresso: la partecipazione al fondo è in genere riservata a investitori istituzionali, qualificati, o risparmiatori con disponibilità patrimoniali consistenti. Inizialmente, la soglia d'ingresso era stata stabilita in 1.000.000 di euro, in seguito ridotta a 500.000. Non vi è più un numero massimo previsto di partecipanti (in Italia erano al massimo 200 per fondo);

limitazione all'uscita: la particolarità delle tecniche di gestione utilizzate determina la necessità di mantenere stabile il patrimonio impiegato, spesso quindi gli hedge fund prevedono dei periodi di immobilizzo pari anche ad un anno e oltre. In aggiunta a questo occorre precisare che molti hedge fund forniscono una valorizzazione solo a livello mensile;

strategie di investimento: gli hedge fund sono caratterizzati da una maggiore libertà nella scelta delle strategie di investimento da adottare. Ad esempio possono utilizzare:

la leva finanziaria: il controvalore degli strumenti finanziari detenuti in portafoglio può essere superiore al patrimonio effettivamente disponibile, utilizzando l'indebitamento o l'investimento in strumenti derivati;

l'arbitraggio: la compravendita simultanea di titoli collegati per trarre vantaggio da una discrepanza di prezzi;

vendite allo scoperto: operazioni effettuate con titoli non posseduti, finalizzate a conseguire profitti o a coprirsi contro i ribassi del mercato. In pratica, la scommessa del gestore è che, dopo aver venduto i titoli, questi perdano valore. In questo modo, quando per concludere l'operazione dovrà riacquistarli, lo farà ad un prezzo inferiore, incassando quindi una plusvalenza.

I fondi di fondi

Per approfondire, vedi Fondi di fondi.

Sono fondi comuni il cui portafoglio è costituito non da titoli, ma da quote di altri fondi. La diversificazione è la caratteristica principale di questa tipologia di fondi la cui gestione è incentrata sulla scelta dei fondi da inserire in portafoglio (di solito 25-30). Potendo investire anche in quote di hedge funds, i fondi di fondi costituiscono per il piccolo risparmiatore un accesso diretto a questi ultimi, spesso loro preclusi a causa dell'elevata soglia di patrimonio in entrata.

Gli index fund

Gli index fund sono fondi caratterizzati da una gestione sostanzialmente passiva, cioè una strategia di gestione che ha come unico obiettivo replicare la performance del mercato, senza cercare di ottenere un extrarendimento.

Il vantaggio principale che offrono è il contenimento dei costi, che possono essere anche molto inferiori a quelli legati alla detenzione dei fondi cosiddetti "attivi". Tale differenza è dovuta ai minori costi di gestione.

Gli index fund vengono gestiti replicando la composizione dell'indice del mercato scelto (ad esempio un index fund sul mercato americano può replicare l'andamento dell'indice Dow Jones Industrial Average, etc.). L'indicizzazione può essere effettuata detenendo in portafoglio tutte le attività finanziarie appartenenti all'indice nella stessa proporzione (effettuando dunque movimenti solo quando vengono aggiunti o eliminati titoli dall'indice), oppure replicando l'indice con un numero inferiore di titoli, utilizzando particolari tecniche di selezione del portafoglio per scegliere i titoli più appropriati.

Gli ETF (Exchange Traded Fund)

Per approfondire, vedi exchange-traded fund.

Gli ETF sono fondi indicizzati (index fund) quotati sui mercati regolamentari, in Italia sull'ETFplus, operativo da aprile 2007, negli Stati Uniti sull'AMEX.

Dal punto di vista finanziario possono essere interpretati o come titoli azionari o come fondi comuni, a seconda che se ne vogliano enfatizzare le caratteristiche di titolo finanziario acquistato dall'investitore o di prodotto venduto.

La storia degli ETF risale alla metà degli anni ottanta, quando il mercato americano AMEX (American Stock Exchange) stava cercando di sopravvivere ad un ambiente competitivo a causa della presenza di mercati come il Nyse e il NASDAQ. L'inizio fu contrastato e incontrò poco seguito da parte dei risparmiatori. Con il tempo la situazione è cambiata e il prodotto sta diventando sempre più popolare, anche a causa di un mutato atteggiamento degli investitori verso la gestione passiva della ricchezza.

I principali vantaggi per gli investitori sono:

costi minori rispetto ai fondi indicizzati non quotati (in genere, i caricamenti di gestione annui oscillano tra 0,3% e 0,8%);

possibilità di essere negoziati durante tutta la giornata di contrattazione come un normale titolo azionario.

La classificazione Assogestioni

Assogestioni, l'associazione di categoria delle Società di Gestione, ha elaborato una specifica classificazione con l'obiettivo di rendere trasparenti le caratteristiche principali del fondo e i principali fattori che impattano sulla rischiosità.

Il sistema di classificazione dei fondi di diritto italiano in vigore dal 1º luglio 2003 prevede 42 categorie e cinque macro categorie. Ogni macro categoria è caratterizzata da una percentuale minima e massima di investimento azionario. Inoltre, sono state definite le seguenti regole:

i fondi di liquidità e i fondi obbligazionari non possono investire in azioni (con l'eccezione dei fondi obbligazionari misti che possono investire da 0% al 20% del portafoglio in azioni);

i fondi bilanciati investono in azioni per importi che vanno dal 10% al 90% del portafoglio;

i fondi azionari investono almeno il 70% del proprio portafoglio in azioni;

i fondi flessibili non hanno vincoli di asset allocation azionaria, cioè possono decidere di investire in azioni dallo 0% al 100%.

Chi gestisce i fondi

I fondi comuni sono gestiti dalle società di gestione del risparmio (SGR), che si occupano della promozione, istituzione e gestione di fondi comuni di investimento.

Le SGR fanno solitamente parte di un gruppo bancario o assicurativo e devono avere per legge la forma giuridica di Società per azioni e capitale sociale superiore a 1 milione di Euro. Le SGR hanno inoltre, nei confronti degli investitori, l'obbligo di operare con diligenza, correttezza e trasparenza, riducendo il rischio di conflitti di interesse.

Rispetto alla gestione del risparmio "fai-da-te", l'obiettivo della Società di Gestione è quello di costruire portafogli per i fondi utilizzando specifiche leve gestionali:

Definizione dell'asset allocation strategica, cioè ripartizione del patrimonio fra diverse tipologie di titoli, aree geografiche e settori merceologici sulla base dei rendimenti attesi, del rischio e delle correlazioni tra le diverse asset class. Questa attività è vincolata dal regolamento del fondo: un fondo azionario Italia non potrà scegliere di puntare sul mercato americano, anche se il gestore ritiene che possa avere buone prospettive di crescita;

Definizione dell'asset allocation tattica: si tratta di aggiustamenti dell'asset allocation strategica di breve periodo, dettati da esigenze di mercato;

stock picking: scelta dei titoli, all'interno delle diverse aree di investimento, da acquistare o vendere, sulla base dell'analisi fondamentale e dell'analisi tecnica. Nel caso dei fondi specializzati, è questa l'attività determinante ai fini della performance;

market timing: scelta del momento migliore per l'acquisto o la vendita dei titoli, cercando di anticipare i cambiamenti e di modificare il peso del portafoglio complessivamente destinato ad un certo mercato, in modo da ridurlo prima della diminuzione dei prezzi ed aumentarlo prima della loro crescita.

Altri soggetti con ruolo rilevante

la banca depositaria, l'intermediario che materialmente custodisce titoli e il denaro del fondo e, di conseguenza, dei risparmiatori. La banca depositaria, inoltre, verifica la legittimità delle operazioni disposte dalla SGR;

il collocatore, cioè il soggetto che si occupa di "vendere" le quote del fondo presso i risparmiatori, solitamente una Banca o una Società di Intermediazione Mobiliare (SIM).

 

Vigilanza

La vigilanza sulle SGR è esercitata da:

la Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) che vigila sulla correttezza dell'operato della SGR e dei soggetti incaricati del collocamento. Alla Consob, inoltre, è demandato il compito dell'approvazione dei "prospetti informativi" che devono essere consegnati ai risparmiatori interessati a sottoscrivere un fondo;

la Banca d'Italia, che autorizza, sentita la Consob, l'attività alle SGR; approva il "Regolamento di Gestione dei fondi comuni" e vigila sull'operato delle Banche depositarie.

Il prospetto informativo e il Regolamento del fondo

Il prospetto informativo è il documento che la Società di Gestione deve obbligatoriamente redigere e consegnare a chi intende sottoscrivere un fondo. L'uniformità di struttura che la Consob prevede per la redazione di questa modulistica da parte delle Società di Gestione rende agevole il confronto fra i diversi prodotti presenti sul mercato.

Il prospetto si compone di:

una Parte Prima, che fornisce sintetiche informazioni sulla natura giuridica del fondo e sulle funzioni della banca depositaria e dei soggetti collocatori, i dati relativi alle caratteristiche del fondo e alle modalità di partecipazione. Vengono descritti, ad esempio: l'obiettivo d'investimento, la strategia di gestione, i rischi associati all'investimento, i costi, il benchmark, le modalità di sottoscrizione e rimborso, l'informativa sul regime fiscale;

una Parte Seconda, che presenta il confronto tra i rendimenti storici del fondo e del benchmark su diversi periodi;

una Parte Terza, ovvero il Modulo di Sottoscrizione.

Il Regolamento del fondo è un documento redatto autonomamente dalla SGR che definisce i rapporti tra i partecipanti al fondo e le sue controparti. In pratica è il documento in cui vengono fissati concretamente i contorni dell'attività di gestione e definiti gli spazi operativi a disposizione del gestore per le scelte d'investimento.

Alcune delle informazioni detenute nel Regolamento sono:

le modalità di partecipazione al fondo, e i destinatari delle quote;

gli organi competenti per la scelta degli investimenti;

il tipo di strumenti finanziari e di altri valori in cui è possibile investire il patrimonio del fondo;

i criteri relativi alla determinazione dei proventi e dei risultati della gestione;

le spese a carico del fondo e quelle a carico della SGR;

le modalità di pubblicità del valore delle quote.

Il benchmark

Il benchmark è un parametro oggettivo di riferimento con cui confrontare l'andamento del fondo comune e valutare il profilo di rischio. È costituito da uno o più indici di mercato, elaborati da soggetti terzi, che sintetizzano l'andamento dei mercati in cui investe il fondo.

I fondi comuni di diritto italiano hanno l'obbligo di indicare il benchmark su tutta la documentazione rivolta al pubblico (prospetto informativo, rendicontazione e pubblicità) e di metterlo a confronto con l'andamento del fondo.

Il requisito essenziale che un parametro oggettivo di riferimento deve avere, secondo il regolamento Consob 10973/1997 sulla prestazione dei servizi d'investimento e dei servizi accessori, è la sua coerenza con il rischio sottostante la gestione del fondo con il quale si vuole operare il confronto.

Gli altri requisiti necessari sono:

la trasparenza, che consiste nella chiarezza delle regole di calcolo utilizzate per la costruzione del benchmark. Questo significa che le formule matematiche usate dalla società di gestione devono essere semplici e comunicate in maniera chiara ai risparmiatori;

la rappresentatività, che implica che la composizione del benchmark debba essere coerente con quella del patrimonio del fondo;

la replicabilità, ossia deve essere composto da attività finanziarie che il risparmiatore può, almeno in linea teorica, acquistare direttamente sul mercato.

Quanto costa un fondo

L'investimento in fondi non è un servizio esente da spese, ma richiede il pagamento di alcuni costi quale retribuzione dei diversi livelli dell'investimento. Tali costi possono essere divisi in due principali categorie: commissioni una tantum e commissioni ricorrenti. Le commissioni una tantum rientrano nelle scelte gestionali della Sgr, in quanto, contrariamente a quelle ricorrenti, non tutti i fondi le prevedono. Le cifre dei rendimenti pubblicate sono al netto delle commissioni ricorrenti, ma non incorporano le commissioni una tantum.

Commissioni una tantum

Sono usualmente applicate in sede di acquisto o di vendita di un fondo. Si tratta di un costo ammortizzabile nel corso degli anni, la cui incidenza pertanto decresce con la permanenza nel fondo. Le commissioni di sottoscrizione, solitamente previste in alternativa a quelle di vendita, costituiscono la remunerazione della rete di vendita. Sono calcolate come percentuale dell'investimento iniziale secondo un sistema a scaglioni che prevede percentuali più basse per versamenti più elevati e viceversa. I fondi che non le prevedono si definiscono "no load". La commissione una tantum più frequentemente applicata è la commissione di vendita, da preferire a quella di sottoscrizione sia perché si paga in un tempo successivo, sia perché viene spesso applicata con un sistema a tunnel: la commissione decresce fino ad annullarsi in funzione della permanenza nel fondo. I fondi che non prevedono costi né di entrata, né di uscita, vengono definiti "no load puri". Anche i trasferimenti di quote da un fondo a un altro della stessa società, i cosiddetti switch, implicano nella maggior parte dei casi, il pagamento di una commissione che può essere fissa o espressa come percentuale del capitale trasferito.

Commissioni ricorrenti

Le commissioni ricorrenti sono previste da tutti i fondi quale remunerazione dei diversi livelli di operatività di un fondo. Sono costi periodici che incidono direttamente sul risultato.

Commissioni di gestione

Sono quelle che retribuiscono la società di gestione per la sua attività di gestione e amministrazione del fondo. Variabili da fondo a fondo, esse vengono decurtate direttamente dal patrimonio del fondo.

Commissioni di incentivo

Si è ormai diffusa la prassi di prevedere, accanto alle commissione di gestione, una commissione detta di incentivo o performance, che spetta alla società di gestione nel caso in cui questa raggiunga rendimenti superiori a un parametro prestabilito. È dunque un premio che il sottoscrittore corrisponde al gestore calcolato sul rendimento differenziale del fondo rispetto all'indice di riferimento, ovvero al benchmark seguito dal fondo. Si tratta, tuttavia, di una prassi non esente da critiche e problemi, soprattutto per quanto riguarda la scelta del parametro di riferimento, spesso troppo facile da battere o poco significativo. Anche la contabilizzazione crea qualche perplessità: in particolare ci si chiede se anche in caso di perdite pregresse il gestore abbia comunque diritto al premio o se, al contrario, sia tenuto a recuperarle.

L'Expense Ratio (Indice di Spesa)

La maggior parte dei costi operativi legati alla gestione dei fondi è espressa con un indicatore, noto come Expense Ratio e specificato nel prospetto informativo. Esso è dato dal rapporto tra il totale degli oneri posti a carico del fondo ed il patrimonio medio dello stesso. Se per esempio il fondo ABC ha asset per 200 milioni di euro e ha costi per 4 milioni di euro, esso presenterà un Expense Ratio del 2%. Nel calcolo dell'Expense Ratio rientrano diverse voci di spesa, la maggiore delle quali è la commissione di gestione, cui seguono le spese amministrative che coprono i costi sostenuti per spedire i prospetti e i report annuali.

Costi di Brokeraggio

Sono i costi che un fondo sostiene per le transazioni di acquisto e vendita dei titoli. Non sono inclusi nell'Expense Ratio, ma elencati separatamente nel report annuale. Vi sono poi delle spese difficili da rilevare. Il costo di alcune transazioni, per esempio, è incluso nel prezzo del titolo. È un costo di trading, ma le società di gestione non lo riportano.