Emergenza casa, diritti e speculazioni (LE MANI SULLA CITTA')

Roma -

Roma è stata ieri teatro del violento sgombero di una palazzina occupata nella periferia sud-est della capitale, che ha seguito di qualche giorno il corteo per il diritto alla casa, anch’esso funestato da scontri e dal manganello pesante degli agenti. L’emergenza abitativa è sempre più un tema centrale in agenda anche se le risposte della politica sembrano poco incisive; a fine marzo, il governo aveva varato per decreto il Piano Casa che contiene, all’articolo 5, la draconiana misura del distacco delle utenze e il divieto per gli occupanti di registrare la residenza, tema del quale ho parlato nel mio ultimo post: il tenore dei commenti mi ha allora suggerito di tornare sulla questione “emergenza abitativa” con un paio di osservazioni, cercando di “problematizzare” una questione complessa che accende gli animi, come solo poche altre riescono.

La prima osservazione: esiste un diritto alla casa? La risposta è si, esiste un diritto alla casa indipendentemente dal diritto di proprietà e dalle leggi di mercato. La casa, infatti, gode almeno sul piano dei principi, di un tipo di tutela sconosciuto ad altri beni “materiali”; tale principio viene tratteggiato in maniera più o meno esplicita dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art. 25), dall’Onu (dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani) dal Parlamento Europeo e dal Consiglio d’Europa. Ma il diritto del cittadino ad un’abitazione, non si traduce automaticamente in un obbligo dello Stato di procurarne una; come rileva la Commissione per i Diritti Umani del  Consiglio d’Europa, si tratta piuttosto dell’obbligo dello Stato di fare tutto il possibile affinché il maggior numero di cittadini possa avere accesso ad un alloggio (ad esempio tramite l’erogazione di sussidi per i redditi bassi, tramite agevolazioni fiscali oppure ponendo vincoli al tetto massimo dei prezzi di mercato). D’altronde la sensibilità sul tema abitativo ha sfumature diverse da un paese all’altro ma a monte, si può dire che esista un principio generale che impegna gli stati a far si che più cittadini possibile abbiano un tetto sulla testa. In Italia, addirittura, non ci sarebbe bisogno di scomodare il diritto internazionale; la Costituzione, infatti, recita al secondo comma dell’art.41: “[L'iniziativa economica privata] Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Sarei grato a chi mi spiegasse quale utilità sociale si nasconde (e si nasconde bene) dietro l’interminabile processo di cementificazione di ogni metro quadrato disponibile nelle grandi città italiane, a fronte dell’enorme stock di edifici sfitti o abbandonati. Non c’è domanda di nuovi alloggi (ai prezzi a cui vengono offerti) si continua a costruire mentre decine di migliaia di cittadini vivono senza un tetto sulla testa oppure sono costretti a soluzioni di fortuna.

Una seconda osservazione, riguarda il rapporto tra il “diritto alla casa” ed il “diritto di proprietà”: chi tutela i diritti dei “legittimi proprietari”, si chiedono in molti? Perché alcuni cittadini“fanno sacrifici mentre altri occupano”?

Gli occupanti, soprattutto quelli organizzati – lo sgombero di ieri a Roma rientra a pieno titolo nella casistica – prendono possesso. In gran parte, di reperti di archeologia urbana, abbandonati all’erosione del tempo, all’incuria (o al disinteresse) degli enti o delle immobiliari che per diverse ragioni non li avevano ultimati o avevano scelto di non reimmetterli sul mercato in attesa di tempi migliori per il mercato. Non si tratta, quindi, di immobili già assegnati oppure acquistati.

In Inghilterra, si sta discutendo di sanzionare i proprietari che decidessero di tenere proprietà sfitte o inutilizzate per ragioni speculative: non ha nulla di sovietico il pretendere che il godimento della proprietà (incluse le rendite) avvenga in un quadro di responsabilità sociale. La sproporzione tra gli stipendi medi ed il costo per metro quadro nelle città italiane, d’altronde, è il risultato dell’assenza di equilibrio tra rendite ed interesse generale: alcuni si sono arricchiti mentre i prezzi delle case salivano alle stelle. Se a questa situazione si aggiunge la difficoltà nell’ottenere un mutuo oppure le molte garanzie richieste per accedere ad un appartamento in affitto, (a causa mercato del lavoro agonizzante), non ci vuole molto a capire che l’occupazione è per molti la sola strada per poter sopperire all’assenza delle Istituzioni (quelle in divisa a parte, si capisce.)

Le occupazioni sono spesso dimore di fortuna, in stabili fatiscenti dove le famiglie si adattano a condizioni indegne per un paese civile pur di non essere costrette a dormire in strada o in macchina. Il paragone tra alloggi stabili e regolari con soluzioni spontanee “inventate” per tamponare un’emergenza, non sono proponibili.

L’emergenza abitativa, insomma, è ormai una bomba a mano senza sicura, la cui deflagrazione rischia di dare un colpo di grazia al traballante tessuto sociale del paese (e se vogliamo del continenteessendo la carenza di alloggi accessibili a tutti, una patologia che investe tutta Europa); se lo stato non mette in essere misure di contrasto alla speculazione (stop alle edificazioni e regole rigide sulle rendite) e di promozione sociale del bene casa, attraverso percorsi di recupero (ed auto-recupero) dell’ingente patrimonio immobiliare in disuso, si rischia di raggiungere un punto di non ritorno sul tema occupazioni. Mettere ai margini singoli o famiglie a basso reddito, è un’operazione che un giorno cancellerà quella diversità di cui una città ha assoluto bisogno per poter vivere.

E allora torna alla mente la sequenza che apre il bellissimo (e attualissimo) film di Francesco Rosi “Le Mani sulla Città” che oltre cinquant’anni fa, raccontava un’Italia che assomigliava pericolosamente a quella di oggi.