Emergenza casa, business della Chiesa. Ecco i lager che ospitano le famiglie sgomberate dall'ex ospedale Regina Elena.

Un affare da 27 milioni l’anno. Che il Campidoglio versa ad associazioni legate alla Curia. Ogni alloggio costa più di un appartamento al centro

di Daniele Nalbone e Ylenia Sina

 

Roma -

Roma, alba del primo settembre. Si apre la stagione degli sgomberi della premiata ditta Alemanno-Pecoraro. Il primo, sindaco della Capitale, da Lourdes, dove si era appena recato per quattro giorni di pellegrinaggio, ha dato mandato di procedere con lo sgombero forzato dell’ex ospedale Regina Elena, in disuso dal 2002 e occupato, dopo cinque anni di abbandono, da oltre 250 famiglie in emergenza abitativa. Per l’occasione il secondo, prefetto di Roma da quasi un anno, ha militarizzato un intero quadrante cittadino, nella zona universitaria, con uno schieramento di polizia e carabinieri “da G8” e «ristabilito la legalità in una struttura occupata abusivamente dal luglio del 2007, restituendola, di fatto, ai malati».

Il tutto, come spiegato dal sindaco e confermato dal prefetto, in obbedienza al rettore dell’università La Sapienza, Luigi Frati, che potrà così rientrare in possesso dell’ospedale chiuso sette anni fa per volere dello stesso ateneo e dall’allora giunta regionale di Storace, «altrimenti» ha spiegato il “maginifico” «avremmo perso i finanziamenti pubblici per la sua ristrutturazione».

Non è che l’inizio. Il prefetto Pecoraro ha prospettato il pugno duro contro le occupazioni abitative. La risposta è stata immediata: dodici ragazzi del movimento di lotta per la casa hanno occupato, arrampicandosi su un’impalcatura, il tetto dei Musei Capitolini: «Come all’Innse, sino alla vittoria! Casa subito». Dietro questo striscione, rappresentanti di tutte le occupazioni cittadine si sono dati il cambio, per una settimana, presidiando il Campidoglio in attesa del rientro di Alemanno da Lourdes riuscendo a ottenere un tavolo di trattative.

Contemporaneamente, dal 3 settembre, nel Foro Traiano centinaia di senzacasa, famiglie sgomberate, attivisti, militanti hanno allestito una tendopoli in segno di protesta.  «Nella città con gli affitti più alti d’Italia e con il numero degli alloggi sfitti più grande, si è deciso di risolvere l’emergenza attaccando proprio chi, con le lotte di questi anni per il diritto alla casa, ha anche rappresentato, involontariamente, un potente ammortizzatore sociale», commenta Paolo Di Vetta, sindacalista di Asia Rdb.

L’impressione è che l’emergenza casa sia più un business da alimentare, che un problema da risolvere. Forse proprio per questo, l’emergenza continua. Un’enorme business che, già in ordinaria amministrazione, è in grado di muovere qualcosa come 27 milioni di euro l’anno. Soldi che il Comune versa nelle casse di cattolicissimi privati. Ecco come mai , dinanzi allo sgombero del Regina Elena, gli uffici di Alemanno hanno messo il turbo. «In due giorni», spiegano rappresentanti del gabinetto del Sindaco il primo settembre, «abbiamo trovato due milioni di euro per sistemare le famiglie sgomberate». Soldi che, come definito in accordi firmati nell’epoca veltroniana, sono finiti nelle tasche del vicariato. Li chiamano Centri di accoglienza. Dovrebbero essere sistemazioni temporanee per le persone in attesa dell’assegnazione di un alloggio popolare. Una chimera. In realtà sono strutture ai margini della città, come quella di Grotte Celoni denominata “Casa della pace”: un capannone all’interno di una zona industriale all’altezza di via Casilina 1670. Molti tra gli ex occupanti del Regina Elena oggi vivono qui, in “alloggi” che ricordano veri e propri lager con bagni e docce in comune, senza cucina, né frigorifero.

Abbiamo fatto un giro nei “residence” in cui vivono oltre mille famiglie, alcune da più di tre anni. La struttura di Casal Lumbroso, un’ ex discoteca, non è molto diversa da quella di Grotte Celoni dove oggi vivono “temporaneamente” le famiglie dell’ex Regina Elena. Anche in questa enorme struttura, come in tutti gli altri centri di accoglienza, gli “ospiti” non sanno che fine faranno: «ci hanno parcheggiato qui nel 2006, dopo una lunga trattativa, con il Comune che voleva lasciarci in un campeggio» racconta una signora sudamericana che vive in Italia da otto anni. «Da allora non ci è stata più prospettata alcuna soluzione alternativa». I costi per queste sistemazioni, che dovrebbero essere temporanee, sottraggono dalle casse comunali da un minimo di 1.260 euro al mese per “appartamento”, come la struttura di Valcannuta, fino a 3.721 e 3.462 euro per i residence di Pietralata e di Colleverde. E ancora 1.800 euro a nucleo familiare per Tor Pagnotta, 2.230 per il residence “Romanina” o 1.300 per quello “Porrino”, entrambi gestiti da arciconfraternita S. Trifone, cooperativa facente capo al vicariato, quasi un monopolista del settore.

I residence sono tutti posizionati nell’estrema periferia, lontano dagli occhi degli elettori. Piccoli appartamenti, monolocali o bilocali, spesso semplici stanze dove solo un armadio, una tenda o, nel migliore dei casi, una parete di cartongesso dividono la camera da letto dalla cucina. Nessun inquilino può uscire dalla struttura portandosi con sé le chiavi di “casa”: vanno, per regolamento, lasciate presso quella che dovrebbe essere la portineria ma assomiglia molto di più a una guardiola. Il cancello di accesso chiude entro le 24. In alcune strutture alle 22. Dopo quest’ora non è più concesso di raggiungere la propria abitazione. Nei residence più “aperti” è necessario farsi identificare al citofono. «Non possiamo arredare con mobili nostri, comprare elettrodomestici, fumare negli appartamenti o ospitare persone anche solo per una notte» denuncia un inquilino del residence di Pietralata per il quale, ogni anno, il Comune versa oltre 1,5 milioni di euro. «È una situazione di continua emergenza che ci ricorda, giorno e notte, che questa non è casa nostra». Significativo, per comprendere la situazione indegna in cui sono costretti a vivere tanti nuclei, è il caso di una famiglia di quattro persone, due adulti e due ragazzi, che dopo aver passato più di un mese accampata alla fiera di Roma dopo che un incendio, nel novembre dello scorso anno, aveva distrutto la palazzina occupata in cui vivevano, in viale Gottardo, è diventata assegnataria di un bilocale: una cucina, un bagno e una piccola camera con un letto matrimoniale e uno a castello. Questo a Tor Tre Teste, in via Tineo, estrema periferia della Capitale, nella struttura di proprietà dalla Wolt spa alla quale il Comune versa un assegno da 3 milioni di euro l’anno.

«Quando ci siamo sposati siamo rimasti a vivere in casa con i miei, pensando che una volta trovato un lavoro stabile saremmo riusciti ad avere una nostra vita», racconta Paolo. «Ma quel giorno non è mai arrivato. Ho lavorato per vent’anni in una cooperativa, poi ho trovato un impiego alla fabbrica della Lavazza che lo scorso anno ha chiuso. Ora sono un magazziniere. Un lavoro normale. Abbiamo provato diverse volte a trovare una casa in affitto ma con due figli e uno stipendio tra i 1.000 e i 1.200 euro al mese non ci possiamo permettere di pagare un minimo di 900 euro mensili. Mia moglie lavora in un supermercato e prende 5 euro l’ora. Per questo» continua «abbiamo deciso di seguire i movimenti che si battono per il diritto alla casa e siamo andati a vivere nell’occupazione di viale Gottardo». Con quello che il Comune paga oggi per il loro alloggio sarebbe possibile affittare un appartamento al centro di Roma.

È questa la “politica dell’emergenza”. E, per evitare che un giorno questo giro di soldi possa finire, altri sgomberi sono alle porte. Sono decine le occupazioni a rischio sgombero, dopo le minacciose dichiarazioni di sindaco e prefetto, pronti a «riportare la legalità» nella città. Migliaia le persone che, a breve, potrebbero rimanere senza un tetto ed essere confinate, i più “fortunati”, in uno degli oltre venti residence privati presenti in città.