INCOSTITUZIONALITA' DELL'ART. 5 DEL DECRETO CASA RENZI/LUPI. QUELLO CHE SCRIVEVAMO UN ANNO FA.

 

RIPUBBLICHIAMO SOTTO L'INTERVENTO DELL'AVV. VINCENZO PERTICARO E QUELLO DEL FORUM DIRITTI LAVORO.

Roma -


INTERVENTO DELL'AVV. VINCENZO PERTICARO

Roma – mercoledì, 21 maggio 2014

 

PROFILI DI INCOSTITUZIONALITA’ DELL’ART. 5 DEL DECRETO LEGGE N. 47 DEL 28 MARZO 2014 (DECRETO LEGGE RENZI-LUPI).

 

Secondo quanto statuito dall’art. 5 del D.L. n.47 del 28 marzo 2014, “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.

Appare di tutta evidenza che la ratio di tale norma è quella di voler reprimere fattispecie delittuose riconducibili alla sfera di applicazione dell’art. 633 c.p., a norma del quale “Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da  € 103,00 ad € 1032,00”.

A ben vedere, dall’art. 5 del richiamato D.L. emerge come intento prioritario del legislatore sia esclusivamente quello di reprimere le condotte criminose de quibus, sacrificando diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, primo fra tutti quello all’integrità fisica tutelato dall’art. 32 della nostra Carta Costituzionale.

Una tale disposizione si appalesa oltremodo illegittima se si tiene conto della circostanza che lo stesso legislatore penale ha previsto, all’art. 54 c.p., la non punibilità di “chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”, introducendo, in tal modo, una causa di giustificazione definita come “stato di necessità”.

Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 54 c.p., nel concetto di “danno grave alla persona”, debbono essere ricompresi tutti quei diritti astrattamente riconducibili all’alveo dell’art. 2 Cost. ed indispensabili per la tutela della persona umana come, nel caso che ci occupa, il diritto ad una abitazione la cui funzione è quella di impedire che un soggetto possa essere limitato dalla violazione di un altro diritto, primi fra tutti la vita e l’integrità fisica.

Tutto ciò trova, peraltro, pieno riscontro in numerosi pronunciamenti degli Ermellini. Difatti, con la sentenza n. 24987/2011 Cass. Pen., è stato ritenuto che“Ai fini della sussistenza dell'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 c.p., rientrano nel concetto di "danno grave alla persona" non solo la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell'art. 2 Cost.; e pertanto rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l'integrità fisica del soggetto in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, fra i quali deve essere ricompreso il diritto all'abitazione in quanto l'esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona..

Ed ancora, è la sentenza n.13.09.2011 n° 33838 Cass. Pen.a precisare che “L'illecita occupazione di un bene immobile è scriminata dallo stato di necessità conseguente al danno grave alla persona, che ben può consistere, oltre che in lesioni della vita o dell'integrità fisica, nella compromissione di un diritto fondamentale della persona come il diritto di abitazione, sempre che ricorrano, per tutto il tempo dell'illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi, e cioè l'assoluta necessità della condotta e l'inevitabilità del pericolo”.

Orbene, alla luce di quanto fin qui esposto, non può non riscontrarsi come la previsione dell’art. 5 del D.L. n.47 del 28 marzo 2014, mirando a reprimere le condotte contra jus di chi occupa abusivamente un immobile,si presti a ledere molteplici diritti fondamentali costituzionalmente garantiti a tutti gli individui, in primis quello all’integrità fisica.

Al fine di poter meglio delineare i diritti costituzionali che si ritengono violati dalla disposizione de qua, occorre dapprima specificare la base giuridica su cui poggia il concetto di residenza e, precisamente, l’art. 43 c.c. il quale dispone che “il domicilio di una persona è nel luogo in cui ha stabilito la sede dei suoi affari ed interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”.

Una tale formulazione, se da un lato riconduce il concetto di domicilio ad una condizione giuridica del soggetto, dall’altro lega quello di residenza ad una situazione di fatto intrinsecamente legata alla dimora abituale del soggetto, ossia alla stabile presenza di quest’ultimo nel territorio comunale ed alla sua intenzione di mantenerla.

Difatti, secondo l’opinione andatasi formando nella giurisprudenza italiana, al fine di potersi attribuire ad un determinato soggetto il diritto di residenza, debbono contemporaneamente ricorrere due elementi e, specificatamente, un elemento oggettivo ed uno soggettivo (o volontaristico). Il primo, si configura come la permanenza del soggetto in un determinato luogo, mentre il secondo attiene alla volontarietà di tale permanenza, desumibile dalla condotta tenuta dal medesimo soggetto. Posta tale chiarificazione, la residenza sembra pertanto coincidere con il luogo dell’esistenza tout court, ossia il luogo degli affetti famigliari e dei bisogni primari ed elementari del soggetto.

 Rilevando, ai fini della concessione della residenza, solamente condizioni di fatto in cui versa in soggetto richiedente, devono conseguentemente essere escluse altre e diverse circostanze quali, ad esempio, che il medesimo soggetto abbia o meno un lavoro, abbia precedenti penali, ovvero che il di lui possesso dell’abitazione sia legittimo. Da ciò discende, pertanto, che la residenza consiste nell’essere la persona stabilmente ed abitualmente presente in un determinato luogo, non assumendo rilievo le caratteristiche del luogo ma il fatto che questo si trovi nel territorio comunale.

Il diritto alla residenza, difatti, si configura come un diritto soggettivo perfetto disciplinato da diverse norme quali la Costituzione (artt. 2,3, e 14), il codice civile (agli artt. 43 e ss.), la Legge n.1128/1954, il D.P.R. n.223 del 20.05.1989, il D. Lgs. n. 286 del 25 luglio 1998, art. 29, e, altresì, dal D.L. n.5 del 9.02.2012, convertito in legge n.35 del 04.04.2012.

Il diritto alla residenza è rinvenibile nella Carta Costituzionale, agli artt. 2,3,14 e 16. L’art. 2 Cost., infatti, riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo “sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, mentre il successivo art. 16 Cost. statuisce che “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generaleper motivi di sanità o di sicurezza”.

Fatte tali premesse, appare ictu oculi che il riconoscimento della residenza è strettamente connesso all’esercizio di numerosi diritti fondamentali di portata costituzionale, infatti, oltre ad essere un diritto in sé, la residenza è il requisito per accedere ai servizi sociali, sanitari e assistenziali. A tal proposito si può richiamare il diritto all’abitazione, incluso espressamente tra i diritti inviolabili dell’uomo dalla Corte Costituzionalecon la sent. n. 404/1988.

La residenza è, pertanto, un diritto soggettivo da cui deriva il godimento di diversi diritti inviolabili appartenenti a ciascun individuo, tra i quali va senz’altro annoverato il diritto alla salute (art. 32Cost.): tale norma costituzionale, difatti, afferma il diritto alla salute dei cittadini e della collettività, la cui attuazione è affidata al servizio sanitario nazionale che eroga le sue prestazioni in base alla residenzialità degli utenti.

Ma non è tutto. Tra i diritti costituzionali intrinsecamente connessi al diritto di residenza si possono richiamare il diritto allo studio (art. 34 Cost.), ad una vita libera e dignitosa (art.36), al voto e, in generale, il diritto a partecipare alla vita sociale e civile. Il rispetto e la tutela di tali diritti vale per tutti esseri umani, quale che sia la condizione personale e sociale di ciascuno.

In una prospettiva radicalmente opposta a quella fin qui delineata sembra, invece, radicarsi la disciplina dell’art. 5 del D.L. n.47 del 28 marzo la quale, in palese contrasto col principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., va a danneggiare i cittadini più poveri. Infatti, a volte, la abituale dimora di queste famiglie impoverite coincide con immobili malsani, roulottes, abitazioni abusive o fatiscenti o, come nel caso che qui ci interessa, immobili occupati senza titolo. Ciò non dovrebbe, in modo alcuno, pregiudicare il diritto dei medesimi cittadini ad essere riconosciuti come residenti all’anagrafe comunale. A tal proposito, è d’obbligo richiamare la Circolare del Ministero dell’Interno n. 8 del 29 maggio 1995 con cui viene sancita l’illegittimità di alcune prassi tendenti a condizionare l’iscrizione anagrafica alla dimostrazione di alcuni requisiti. Invero, come si può ben leggere nella richiamata Circolare, “La richiesta di iscrizione anagrafica, che costituisce un diritto soggettivo del cittadino, non appare vincolata ad alcuna condizione, né potrebbe essere il contrario, in quanto in tal modo si verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio nazionale in palese violazione dell’art. 16 della Carta costituzionale.”.

Ciò posto, appare di tutta evidenza che qualsivoglia comportamento idoneo a limitare, se non addirittura ad escludere completamente, il diritto di residenza spettante a ciascun cittadino, è da ritenersi contra legem e lesivo dei diritti dei cittadini stessi.

Difatti, se da un lato l’art. 5 del D.L. n.47 del 28 marzo 2014 ha come intento primario, se non esclusivo, quello di reprimere le fattispecie criminose riconducibili alla sfera degli artt. 633 e 639-bis c.p.c., dall’altro lascia completamente privi di qualsivoglia tutela tutti coloro i quali, spinti dalla necessità di scongiurare il pericolo di un danno grave alla propria persona ovvero a quella dei propri cari, hanno posto in essere le condotte richiamate dalle fattispecie de quibus. Il D.L. in questione si appalesa, pertanto, del tutto inidoneo a fronteggiare il disagio abitativo che colpisce moltissime famiglie italiane impoverite, non prospettandosi nello stesso alcuna risoluzione atta a fronteggiare tale emergenza se non quella di negare, a coloro che abusivamente occupano un immobile la possibilità, di richiedere la residenza o l’allacciamento a pubblici servizi. Tutto ciò, a ben vedere, compromette fortemente la dignità di ogni essere umano e, specificamente, di tutte quelle famiglie indotte a tenere comportamenti contra jus al solo fine di rivendicare il proprio diritto ad una abitazione, non altrimenti garantitogli dallo Stato in cui vivono.

studioperticaro@libero.it

 


INTERVENTO DEGLI AVVOCATI DEL FORUM DIRITTI LAVORO:
L'ART. 5 DEL DECRETO CASA RENZI/LUPI E' INCOSTITUZIONALE E TORNA INDIETRO ALL'ITALIA PREUNITARIA!

Roma – domenica, 13 aprile 2014

 L’ART. 5 DEL DECRETO LEGGE RENZI-LUPI SUL “PIANO CASA”

E IL DIRITTO AD ESISTERE

Esattamente come accaduto per il lavoro (e cioè le “tutele progressive” e “gli 80 euro” in più in busta paga forse un domani mentre la precarietà e la fine di ogni diritto alla formazione subito con il decreto legge Renzi – Poletti n. 34 del 20 marzo)  lo stesso ha fatto il Governo sul cd “piano casa”  con il decreto legge gemello Renzi – Lupi n. 47 del 28 marzo.

Ed infatti le misure previste per fronteggiare l’emergenza abitative sono del tutto vaghe, future, senza investimenti pubblici e basate sulla solita fallimentare miscela di svendita del patrimonio immobiliare pubblico, costituzione  di  “fondi di garanzia” (pubblici) che andranno a finanziare programmi di edilizia popolare “in  convenzione  con  cooperative  edilizie”,   un altro taglio delle tasse per i proprietari di immobili e la replica del cd “modello Bertolaso” per le grandi opere con la deregolamentazione della normativa urbanistica per l’Expo di Milano.  Ma se sin qui siamo alla solita politica degli annunci che avrà quale risultato solo un ulteriore sostegno a costruttori e immobiliaristi  e che ha accompagnato da sempre la politica sulla casa  in Italia, l’aspetto veramente straordinario del decreto 47 è che sostanzialmente l’unica norma immediatamente operativa nel nostro ordinamento dal 28 marzo è quella prevista  all’art. 5 che stabilisce come “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo  non  può  chiedere la residenza  né   l’allacciamento  a  pubblici  servizi  in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi  in  violazione  di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge.”  

E – se si tiene conto di come notoriamente ad oggi decine di migliaia di famiglie impoverite siano costrette a vivere in immobili occupati abusivamente  - non  può non rilevarsi la beffarda ironia del Presidente Napolitano che ha  immediatamente controfirmato il decreto rendendolo vigente con provvedimento che testualmente giustifica il ricorso straordinario ed eccezionale al decreto legge “considerata, in particolare, la necessità di  intervenire  in  via d’urgenza per far fronte al disagio abitativo  che  interessa  sempre più  famiglie impoverite dalla crisi(sic).

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Ma per spiegare il “segno di classe” estremo a cui mai era giunto nessun governo repubblicano occorre qui brevemente ricostruire l’evoluzione del concetto giuridico di residenza. 

E’ utile precisare infatti che l’ottenimento della residenza è un completo diritto soggettivo del cittadino che trova tutela e fondamento nei principi generali dell’ordinamento e nella Carta Costituzionale.

Il concetto giuridico di residenza è contenuto nell’art. 43 del codice civile  il quale dispone “ il domicilio di una persona è nel luogo in cui ha stabilito la sede dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. La distinzione operata dalla norma tra domicilio,  inteso come sede degli affari, e residenza, intesa come dimora abituale, è meritevole di attenzione. Tale distinzione ha fatto il suo esordio nel 1865  con il primo codice civile dell’Italia Unita, con la volontà di riconoscere alla persona la possibilità di avere una sede personale – la residenza appunto – distinta dal luogo in cui esercita gli affari. Con tale scelta, confermata dal codice civile vigente che è stato approvato nel 1942 , si decise quantomeno di equiparare il profilo economico e quello personale ed affettivo, concependo il domicilio come luogo di imputazione delle situazioni patrimoniali e la residenza come luogo delle esigenze personali e di vita, dando a queste ultime una rilevante dignità giuridica.  L’emergere nell’ordinamento del concetto di residenza va di pari passo cioè con il passaggio da una società fondata sugli status, ad una società caratterizzata dalla nozione di cittadinanza e dalla parità giuridica fra cittadini propria dello  Stato di Diritto.  Non a caso la prima legge anagrafica risale al 1791 nella Francia immediatamente post rivoluzionaria ed uno dei passaggi fondanti della nascita dello Stato Italiano è consistito proprio nella costruzioni di un ordinamento anagrafico.  E’ evidente che tale distinzione presenta una dimensione qualitativa, poiché mentre il domicilio attiene ad una condizione giuridica (elettiva) del soggetto, la residenza qualifica una situazione di fatto, relativa alla dimora abituale del soggetto. Ma il diritto all’accertamento di tale fatto risulta di primaria importanza, poiché con il riconoscimento della residenza implica numerosi diritti – e anche degli obblighi - relativi alla condizione di cittadino.

In primo luogo, sancisce  una sorta di diritto di affermazione dell’ esistenza, ovverosia di registrazione quale cittadino residente ai fini di tutte le rilevazioni statistiche e alla distruzione delle risorse e all’imputazione delle imposte. Senza contare che il corretto censimento dei residenti è un aspetto dell’ordine pubblico (ad esempio se crolla un edificio occorre sapere chi potrebbe esservi sotto le macerie, ecc.).

In secondo luogo, la residenza è precondizione dell’esercizio dei diritti politici, con particolare riferimento all’iscrizione nelle liste elettorali e la possibilità di esercitare l’elettorato passivo.  Senza la residenza non è possibile, poi, godere a pieno del diritto alla salute  in quanto è condizione per ottenere l’assegnazione di un medico di famiglia e del diritto allo studio  in quanto è condizione dell’accertamento dell’obbligo scolastico. Ed infine la “residenza legale” in Italia è necessario requisito per ottenere la cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9, lett. f), L. n. 91/92.  Infine ogni sussidio, agevolazione o servizio viene presuppone la condizione – si ripete oggettiva  - della residenza.

Alla luce di tali considerazioni appare evidente il legame che corre tra la residenza è l’esercizio di diritto fondamentali di portata Costituzionale.

La residenza, anzitutto, è legata all’esercizio dei diritti fondamentali di cui agli artt. 2 e 16 Cost. della costituzione. L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia  come singolo “sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e l’art. 16 stabilisce che “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza.”

Inoltre, tenendo conto che con il decreto Renzi – Lupi  viene negato anche il diritto alle utenze, la Costituzione tutela tutti i diritti per il cui esercizio è funzionale la residenza sopraelencati ( diritto alla salute : art. 32; diritto allo studio art. 34; il diritto alla distribuzione delle risorse e alla fruizione dei servizi di welfare: art. 3; diritto ad una vita libera e dignitosa: art. 36 ).  Insomma con il piano caso di Renzi – Lupi non si esce solo dalla Costituzione ma si torna indietro all’Italia preunitaria.

Va al riguardo detto come – in effetti – norme simili negli effetti siano state adottate dalle giunte leghiste per escludere i non “nativi” presenti sul territorio ma tali provvedimenti sono sempre stati annullati dal T.a.r. in quanto “è opinione comune in giurisprudenza che la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e da quello soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali; pertanto, qualora la residenza anagrafica non corrisponda a quella di fatto, è di questa che bisogna tener conto con riferimento alla residenza effettiva , quale si desume dall'art. 43 c.c., e la prova della sua sussistenza può essere fornita con ogni mezzo, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche o in contrasto con esse” (T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, Sent., 20-12-2012, n. 3157, si veda anche  Cons. Stato, sez. IV, 2 novembre 2010, n. 7730).

E ciò infatti discende direttamente dalla normativa nazionale pregressa (che, paradossalmente non è stata abrogata a riprova non solo dell’odio di classe dell’attuale Governo ma anche della sua totale impreparazione tecnica). Ed infatti  la legge 1228/54 stabilisce che “è  fatto obbligo ad ognuno di chiedere per sé e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela, la iscrizione nell'anagrafe del Comune di dimora abituale”, senza contenere alcuna limitazione relativa alla condizione abitativa del richiedente. Il regolamento anagrafico (dpr 223/89) stabilisce che “ per persone residenti nel comune si intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune”. Nella stessa direzione si pone la Circolare del Ministero dell’Interno del 29/5/95 per cui “la richiesta di iscrizione anagrafica non appare vincolata ad alcuna condizione, né potrebbe essere il contrario, in quanto in tale modo si verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio nazionale in palese violazione dell’art. 16 della Costituzione”. La circolare afferma, poi, che tale accertamento non implica una “discrezionalità dell’amministrazione”.

E del resto ciò spiega come la residenza sia stata sempre concessa in alloggi di fortuna, quali roulotte, tende, camper e immobili senza titolo. E proprio perché la pubblica amministrazione si limita ad accertare un fatto – la dimora abituale – e non a concedere uno status che il dpr n 223/89 (regolamento anagrafico) all’art. 19 limita l’accertamento dell’ l’ufficiale di anagrafe “a verificare la sussistenza del requisito della dimora abituale”.

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Ciò premesso, a seguito del decreto Renzi Lupi le “famiglie impoverite” costrette a vivere in immobili occupati “abusivamente”

·         non potranno più votare,

·         non potranno più iscrivere i figli a scuola,

·         non potranno più accedere all’assistenza del servizio sanitario,

·         non potranno più ottenere, se stranieri, la cittadinanza italiana

E  per altro non potranno avere più l’allaccio alle utenze di acqua, luce e gas e il tutto SENZA CHE SIA PREVISTA PER ESSI NESSUNA ALTERNATIVA ALLOGGIATIVA  se non, letteralmente, trasferirsi sotto un ponte (ove essi – nuovo amaro paradosso – continuerebbero ad avere il diritto alla residenza in base ai principi giurisprudenziali sopra richiamati)

E ciò non solo in contrasto con la nostra Costituzione – anzi con tutti i principi cardine dello stato di diritto liberale precedente – ma anche con la normativa comunitaria in materia prevedendo la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (cd Carta di Lisbona) che “con l’obiettivo di combattere povertà e esclusione sociale, l’Unione riconosce e rispetta il diritto alla casa e all’housing sociale, al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non siano in possesso delle risorse minime, in accordo alle regole stabilite dalla legislazione Comunitaria e dalla legislazione e pratiche internazionali” (Articolo 34.3 EUCFR). Ed essendo per altro tali principi già sanciti dall’Articolo 13 della Carta Sociale dell’Unione Europea e sugli Articoli 30 (che include l’obbligo a promuovere una serie di servizi, compreso l’abitare) e 31 (che promuove l’accesso a un’abitazione di standard adeguato per prevenire e ridurre il fenomeno della homelessness nella prospettiva della graduale eliminazione della stessa e l’accessibilità dei prezzi per coloro che non possiedano le risorse necessarie).

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Con il decreto Renzi – Lupi  i poveri vengono espulsi dallo stato diritto e privati del diritto basilare all’esistenza (in nessun altro modo è definibile venire deprivati di acqua, luce, riscaldamento, diritti di elettorato, assistenza medica,  diritto all’istruzione e alla cittadinanza italiana per gli stranieri). E questo francamente non può essere accettato.

Il Forum Diritti Lavoro

·         chiede quindi che venga messo nella piattaforma  della manifestazione del 12  aprile - come parte integrante alla lotta al Jobs act di cui al decreto legge 34 del 20 marzo 2014 – anche l’art. 5 del decreto legge n. 47 del 28 marzo.

·         E si dichiara disponibile, nei propri modesti limiti, ad affiancare le famiglie che vivono in alloggi abusivi nella lotta giudiziaria per affermare il proprio basilare diritto ad esistere.

Roma 4.4.2013

                                          avv.ti Bartolo Mancuso e Carlo Guglielmi

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