Roma, Casalbruciato. La guerra tra poveri nelle periferie ha una regia e molte complicità
Articolo di Sergio Cararo su Contropiano on-line
Le scene di queste ore a Casalbruciato, popolare quartiere della periferia est romana, da un lato sembrano un loop del format che abbiamo denunciato da tempo, dall’altro segnalano una vera e propria campagna di “pulizia etnica” scatenata dai vari gruppi neofascisti (CasaPound, Forza Nuova, Fratelli d’Italia) per gestire sul piano “sociale” le politiche istituzionali promosse dal Ministro dell’Interno e vicepremier Salvini.
Siamo di fronte ad un combinato disposto micidiale.
Questa pretesa di “ripulire” i quartieri popolari da presenze ritenute estranee (in questo caso è l’anello più debole e meno “popolare”, come i rom) mette a durissima prova un intero sistema di civiltà e investe le responsabilità di chi governa, sia a livello comunale che centrale.
E’ evidente come questa escalation agisca sia dal “basso” (con le ripetute gazzarre fasciste nei quartieri) che dall’alto, con la palese compiacenza del Ministero degli Interni che trasmette a tutta la propria catena di comando l’indicazione della “massima tolleranza” verso le azioni dei gruppi neofascisti. Se non qualcosa di peggio. A pensarla male si compie peccato… ma non riusciamo a sottovalutare quel passaggio dell’ultima relazione annuale dei servizi di sicurezza al Parlamento, dove si prevede e registra un aumento dello scontro tra fascisti e militanti della sinistra proprio nei quartieri della periferia. Viene il dubbio che se i fascisti non facessero i loro raid nei quartieri questo scontro non ci sarebbe, ma indubbiamente se ci li portano pure accompagnati diventa inevitabile.
Per molto meno di quello che stiamo vedendo fare dai fascisti, decine di attivisti dei movimenti sociali e dei sindacati di base in questi anni sono stati arrestati, denunciati, processati, sottoposti a misure restrittive e di sorveglianza speciale.
Infine, ci sono le responsabilità istituzionali locali. Il Comune di Roma e la giunta Raggi continuano a tollerare che al Dipartimento Politiche Abitative ci sia qualche “gola profonda” che fornisce “dritte” ai fascisti sulle assegnazioni più “critiche” di alloggi popolari, consentendo loro di sapere in anticipo dove e quando arriveranno nuclei familiari di rom o di immigrati. Assegnatari regolari, va ricordato.
Non solo. Di fronte alla “pulizia etnica” dichiarata dai gruppi neofascisti, che vorrebbero decidere chi entra e chi esce dalle case popolari in base a criteri di “italianità”, la giunta romana rinuncia a far sentire il proprio peso e le proprie responsabilità istituzionali.
Sullo sfondo resta la madre di tutte le contraddizioni: quella irrisolta dell’inesistente risposta all’emergenza abitativa, nella Capitale come in quasi tutte le altre grandi aree metropolitane.
Le case di edilizia sociale sono pochissime. L’Italia spende da decenni cifre irrisorie per l’edilizia pubblica. L’imposta di scopo (la Gescal), che per anni ha trattenuto sulle buste paga dei lavoratori le risorse destinate proprio a questo problema, è stata assorbita dalla fiscalità generale e quindi bruciata nella fornace del pagamento del debito pubblico.
Il risultato è che da anni non si costruiscono nuove case, né si acquisisce parte del già costruito per dare abitazioni a chi ha fatto domanda e magari sta in graduatoria – da anni – in attesa di una assegnazione. Si tratta di migliaia di famiglie, “italiane” in larga parte ma non solo, spesso superate nei punteggi da famiglie di immigrati con nuclei più numerosi e redditi ancora più bassi.
Secondo alcune fonti, solo a Roma ci sono 10.100 famiglie in attesa di una casa popolare, più altre 5.000 che, stanche di aspettare in mezzo ad una strada, nel frattempo hanno occupato edifici o appartamenti lasciati vuoti.
Nel caso dei rom, oltretutto, “la bomba” è scoppiata sulla base di un protocollo della giunta comunale Alemanno (neofascista, condannato in primo grado a sei anni di carcere) il quale riconosceva un punteggio superiore alle famiglie rom che accettavano “l’integrazione”, rinunciando alla vita nei campi ed entravano a far parte di una sorta di lista per un esperimento-pilota gestito dalla Caritas e dall’Opera Nomadi.
In presenza di un welfare reale, e di una capacità/possibilità di gestione di domanda-offerta di abitazioni popolari, si tratterebbe addirittura di un progetto avanzato, simile a quello esistente in altri paesi europei dove, anche con un numero di rom più elevato, non si presentano mai grossi problemi di integrazione sociale.
Ma di fronte alla deliberata scarsità di abitazioni pubbliche messe a disposizione, la “guerra tra poveri” diventa facile da attizzare; soprattutto se su questo agiscono dal basso e dall’alto forze che la fomentano apertamente.
Non c’è un’unica soluzione a questa emergenza. Ce ne sono varie.
La prima, evidentemente, è la messa a disposizione di abitazioni a prezzi accessibili, in modo da dare risposta alla domanda abitativa di migliaia di famiglie. O lo si fa o non lo si fa. E lo si può fare rilanciando l’edilizia popolare e requisendo, o acquisendo, l’enorme patrimonio abitativo invenduto o lasciato vuoto dalla speculazione e dal mercato immobiliare.
Ridurre o eliminare la scarsità è il primo, inevitabile, passo per disinnescare la “guerra tra poveri” e dare risposte alle esigenze popolari.
In secondo luogo disinnescare questa “guerra” significa smascherare gli “indicibili accordi” tra istituzioni e gruppi neofascisti.
Le complicità di cui questi ultimi godono sono ormai evidenti, rivendicate, insopportabili. Se non ci fossero, molte partite si giocherebbero in diretta e sul territorio e sappiamo che ai fascisti di Casa Pound non piace perdere (a loro piace vincere facile).
Ma per questo serve una generazione politica antifascista che si tolga nuovamente i guanti e rompa culturalmente con la inettitudine della “sinistra”.