Stop al consumo di suolo. Ci sono altre soluzioni.

Roma -

Opinioni e interventi

Non convince la proposta del ministro Mario Catania. >>>
Non convince per gli antiquati e storicamente inconcludenti procedimenti a cascata, per l’imprevedibile lunghezza dei tempi, non convince soprattutto perché, alla fine, a decidere sono le regioni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le regioni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel centro Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù (Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud) lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato rapidamente emarginato. Insomma, con la proposta Catania, l’obiettivo logicamente prioritario, che dovrebbe essere di imporre le misure più severe laddove maggiore è sregolatezza, diventa francamente velleitario: ve le immaginate la Campania, il Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo? Servono perciò soluzioni radicalmente diverse.
E urgenti.
Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le regioni si convertano al buogoverno, significherebbe toccare il fondo, annientare materialmente l’unità d’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è irreversibile. E allora? Andando subito al merito, secondo me, e scusandomi del carattere anche molto tecnico dell’esposizione, dovrebbero essere praticabili due percorsi che provo a illustrare. Il primo percorso fa capo al Codice dei Beni culturali che, com’è noto, sottopone a tutela (art. 131, c. 2) il paesaggio dotato di “quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”: parole che riprendono quelle scritte da Benedetto Croce in occasione della legge 778 del 1922, da lui voluta (“Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo”). Il paesaggio come identità nazionale non può essere evidentemente tutelato in autonomia da 20 regioni, e perciò il Codice dispone (art. 135, c. 1) che i piani paesaggistici siano elaborati “congiuntamente” tra ministero dei Beni culturali e regioni: mentre prima, al tempo della legge Galasso, i piani paesistici erano di esclusiva competenza regionale.
Che lo Stato non debba partecipare solo nominalmente o in via subordinata alle iniziative regionali, ma debba essere invece il motore della pianificazione è previsto dalla seguente norma che secondo me è la più importante del Codice (art. 145, c.1): “La individuazione, da parte del Ministero, delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali” (una norma d’importanza capitale di cui va anche apprezzato il ritorno al lessico del noto e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616 del 1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica). Ma quest’aspetto davvero innovativo del Codice, è totalmente disatteso. Delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione” non c’è traccia. Non è stata possibile neanche l’individuazione dell’ufficio che dovrebbe occuparsene. Il ministero dei Beni culturali, più volte sollecitato in proposito (per esempio da Italia Nostra, nell’ambito del primo – e ahimè unico – Rapporto sulla pianificazione paesaggistica dell’ottobre 2010, e dall’associazione “Salviamo il paesaggio” con una nota al ministro del febbraio di quest’anno) non ha dato segni di vita.
Riguardo al contenuto delle linee fondamentali, non mi pare che possano esistere dubbi sul fatto che al primo posto debba essere collocato lo stop al consumo del suolo, riconoscendo in esso il male assoluto, quello che distrugge il paesaggio come identità nazionale e perciò da fermare con inflessibile determinazione. Se necessario, individuando formalmente nello spazio aperto una specifica categoria del territorio (ex legge Galasso) meritevole di tutela assoluta. Esiste forse un’emergenza più avvertita? (Allo stop al consumo del suolo possono certo affiancarsi altri obiettivi, per esempio Italia Nostra propone anche un vincolo di tutela generalizzato per tutti i centri storici). Si può qui osservare che anche il percorso che sto proponendo alla fine fa capo alle regioni. È vero. Ma è anche vero che in questo caso le regioni sarebbero ingabbiate in un’unica procedura nazionale, con precise scadenze e poteri sostitutivi ope legis (art. 143, c. 2), e il perseguimento della tutela del territorio attraverso i meccanismi di una pianificazione immediatamente cogente e direttamente riferita alla complessità del reale appare più convincente delle contorte modalità della proposta Catania. Ma più ancora delle procedure dovrebbero contare l’impegno politico-culturale del governo e la sua azione sull’opinione pubblica per obbligare le regioni a fare la loro parte: da questo punto di vista mi pare decisivo lo spostamento del comando dal ministero dell’Agricoltura a quello dei Beni culturali con il conseguente spostamento dell’oggetto della tutela dalla produzione agricola, importante quanto si vuole ma non come il paesaggio, connotato costitutivo e costituzionale del nostro Paese. Ovviamente, adesso è inutile sperare in una resipiscenza dell’attuale compagine governativa. Con Lorenzo Ornaghi forse è peggio che con Sandro Bondi, ma non si può dare ragione a chi sostiene che il ministero del Collegio Romano sia ormai destinato all’estinzione. Dobbiamo invece sperare che al più presto un nuovo governo, con un prestigioso ministro dei Beni culturali, affronti con risoluta autorevolezza la questione del consumo del suolo. Magari come occasione per la riforma e il rilancio del ministero. O addirittura con la responsabilità diretta del presidente del Consiglio come garante dell’impegno collegiale del governo nella tutela del paesaggio.
E se, sognando a occhi aperti, il nuovo governo fosse davvero sensibile, si potrebbe anche pensare – è il secondo percorso che propongo – a una spietata decisione statale – un decreto legge o una legge di principi in attuazione dell’art. 9 della Costituzione – che azzeri subito tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obblighi a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, riparazione, risistemazione, riutilizzo, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.
Questo secondo percorso è molto meno feroce di quello che sembra. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia di una grande e insormontabile linea rossa da tracciare intorno allo spazio urbanizzato non è un’utopia. Sa che le possibilità di riuso e simili sono sconfinate. Sa che stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero, perché i bisogni da soddisfare – in misura diversa al variare delle circostanze – sono comunque sconfinati (a cominciare dalle residenze per gli strati sociali sfavoriti). Sa che in una logica di riuso e simili ogni investimento volto al soddisfacimento di bisogni è al tempo stesso un’azione di recupero ambientale. D’altra parte non sono poche le recenti esperienze di pianificazione senza consumo di suolo. Non è solo Cassinetta di Lugagnano. Ci sono anche, che io sappia, a zero consumo di suolo, il piano regolatore di Napoli del 2004, il piano territoriale della provincia di Torino del 2010 e il piano territoriale della provincia di Caserta approvato nel luglio di quest’anno. Non mi pare poco (ma sarebbe bene disporre di un quadro aggiornato delle altre analoghe situazioni).

 


Che tempo che fa?

Scritto da Rossella Marchini e Antonello Sotgia

Con la discussione in Campidoglio, il cui inizio è previsto per la prossima settimana, della manovra urbanistica, Alemanno , novello Giove pluvio, è pronto a lanciare i propri fulmini di cemento sotto la forma di un pacchetto di 64 delibere i cui esiti edilizi ( cioè quello che sarà autorizzato a essere costruito) messi in fila uno dopo l’altro, “pesano” oltre 20 milioni di metri cubi. Un particolare diluvio che pur facendo precipitare case, non risolverà certo né la questione di chi abita la nostra città senza avere la possibilità di una casa, né ad assicurare il diritto all’abitare di tutti.

Se Veltroni ci aveva consegnato un Piano regolatore sovrastimato nel proprio dimensionamento in termini di previsione di nuovi abitanti e di cubature “monstre”, ma privo del tutto di alcuna decisione nei confronti dell’edilizia economica e popolare, Alemanno aggiunge torto a torto prevedendo per oltre il 60% del totale impegnato con le sue delibere, di vomitare al suolo, la costruzione di nuove case private.

Due torti non fanno una ragione. Così una melassa di case si aggiungerà allo stock degli appartamenti invenduti che, in questo momento, sono contati intorno alle duecentocinquantamila unità.

Il tutto ovviamente nella più totale indifferenza del fatto che tutto questo “tuonare” si aggiunge alle previsioni del piano vigente che, a loro volta, hanno imposto a Roma, per oltre 60 milioni di metri cubi, la propria potenzialità edificatoria di residenze private.

Con questa manovra Alemanno , in un territorio di 129 mila ettari di cui 55 mila già urbanizzati ( circa18 mila quelli “ bruciati “ dall’anno (2008) di approvazione del Piano ad oggi) , intende assaltare altri 2 mila ettari ( oggi agricoli) per costruire, almeno, 66 mila nuovi appartamenti destinati a restare invenduti.

Si prevede dunque un vero e proprio uragano di cemento che si alimenta e si rafforza attraverso tre avvenimenti: la costruzione di case , il consumo di suolo, la realizzazione di un patrimonio edilizio destinato a restare invenduto.

La Carta disegnata ( e riportata qui sopra) da Dinamopress è una carta doppia: oltre le precipitazioni, mostra anche l’esatto luogo in cui queste si abbatteranno. Questa volta le considerazioni di Herman Melville “ le mappe mentono sempre, i veri posti non ci sono mai” sembrerebbero essere sconfessate, ma a ben guardare , anzi a ben leggere ( le carte vanno lette, per questo ci dicono molto di più di quello che vediamo trovandoci su di un luogo) ci fanno capire che a scomparire, a non essere preso in considerazione è proprio il Campidoglio, intendendo, con questo, che le 64 delibere dimostrano come sia saltata e in maniera irreversibile l’opera di mediazione tra Pubblico e interesse privato che è stata la base su cui si reggeva la disciplina urbanistica.

Le 64 delibere parlano di aree che verranno densificate a danno di servizi che non verranno mai fatti, di edifici pubblici che , obbedendo ai dettami della Bce saranno svenduti, di un territorio impoverito, di realizzazioni pensate dalle istituzioni di finanza per colpire al cuore la vita stessa di ognuno di noi. Le sagome di cemento, che tracimano dalle pagine di queste delibere , dicono innanzitutto- e per la prima volta- che Roma non è una questione urbanistica, destinata come è a doversi rifondare quale luogo dove tecniche di governo, giorno dopo giorno, imporranno decisioni prese altrove.

Non si tratta solo di quantità di metri cubi quanto: di pesantissimi metri cubi che accompagneranno, una strategia del comando che, attraverso sempre più cruenti forme di dispotismo, taglieranno servizi, toglieranno anche le più elementari forme di assistenza, violenteranno diritti puntando in modo diretto alla nostra vita tenendo insieme tutte queste operazioni proprio con il sistematico attacco all’ambiente costruito e naturale.

Prove tecniche per spingersi oltre: dalla metropoli come merce a considerare chi l’abita ( noi) come merce.

E’ necessario quindi sottrarci territorio e, questo, avverrà secondo un progetto preciso :

1. con le “Compensazioni” ( il paradigma urbanistico di stampo veltroniano). Guardando la Carta , quei cerchi viola, indicano proprio questo: che lì , su terreni magari destinati a verde e servizi o ancora agricoli, atterreranno cubature che “ sollevate” da altri posti durante il “ volo” si irrobustiranno pesantemente con un ulteriore incremento che sarà fatto precipitare in luoghi già fortemente segnati all’intorno dal peso edilizio. Questo avverrà soprattutto nei piani di zona ( nella carta indicati da quadrati del colore blu) dove:

2. attraverso la “ densificazione” non solo non si faranno servizi, ma si cancellerà addirittura la loro previsione. Facendo del’urbanistica da sostanza di cose sperate, certezza di cose negate, si creeranno ulteriori ghettizzazioni. Aggregazioni di cui poi:

3. magari prendere in futuro, a pretesto, il loro recupero - indicato nella carta con cerchi blu- come oggi avviene in quelle zone che, costruitesi abusivamente nel degrado e al di fuori di ogni regola, le delibere portano a far coincidere con la programmazione della città e a divenire luogo preferenziale del più sfacciato sfruttamento ( lontananza, assenza di servizi di ogni tipo, ghettizzazione..)

4. Programmando un folle consumo di suolo perpetuando, a fronte dell’invenduto, l’occupazione a tappeto di sempre più spazio, proponendo, al posto di recuperare tanto spreco, la costruzione di nuovi alloggi attraverso il ricorso al cosiddetto housing sociale ( indicato con cerchi bicolori gialli e rossi) con il risultato che, con l’impoverimento di fasce sempre più ampie della popolazione, saranno destinati a restare vuoti ma non ad interrompere la fabbricazione del plusvalore in un territorio immediatamente produttivo. Per renderlo tale, infatti, è necessario continuare a:

5. attrezzarlo attraverso progetti speciali (nella carta rappresentati con un cerchio giallo) che rappresentano veri e propri “ codici di accesso”con cui privatizzare ogni possibile spazio pubblico a vantaggio di luoghi monofunzionali, pensati a combattere l’idea stessa di città, il suo significato di proporsi quale “civitas” e, con questo, interrompere per sempre la capacità di definirsi luogo in cui riconoscersi gli uni con gli altri, a partire proprio dall’inclusione tra loro di gruppi diversi. Al fine di:

6. costruire spazi indefiniti su cui intervenire, direttamente sul corso della vita di tutti noi ( cerchi celesti) con lo sfaldamento e la rimozione di ogni programma di aiuto sociale, la contrazione salariale e l’aumento dello sfruttamento del lavoro, la privatizzazione di ogni risorsa naturale e comune al fine di spingere sempre più avanti l’indebitamento delle famiglie per accaparrarsi e assicurarsi immediatamente rendita e profitto.

Dinamopress chiede ai movimenti, alle associazioni, a chi la città abita, a chi vuole trasformarla, di aiutarci a far parlare questa carta con lotte, ipotesi, connessioni, ragionamenti, sogni da condividere per sconfiggere la miseria e la solitudine con cui hanno deciso di circondarci.