Un tempo sapevamo la città a menadito

di Rossella Marchini e Antonello Sotgia

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Roma -

Le banche truffano gli obbligazionisti due volte. Si impossessano dei loro risparmi e gli rubano la città.

C’erano i piani regolatori. Poteva anche accadere che non ci fossero. La città, però, la sapevamo lo stesso. Indipendentemente dall’andare a riconoscere su quei fogli colorati dove eravamo. Difficile ritrovarsi nei retini “verdi” che promettevano la presenza di alberi e distese lussureggianti. Non li vedevamo. Non li avremmo mai visti. Frustrante veder siglato con un codice alfanumerico il nostro abitare. Scoprirlo racchiuso in “zone” rigide. Contrapposte le une con le altre. Sapevamo la città. Sapevamo, soprattutto, che la città veniva fatta con il denaro. Molto denaro. Lo stesso che noi (molti) producevamo lavorando. Altri (pochi) facendolo saltar fuori dal nostro lavoro. Lottavamo. Per veder aumentare il denaro che ci spettava. Per diminuire la fatica del procurarcelo, che ci stremava. Noi con quel denaro avremmo abitato la città. Quegli altri lo usavano per farlo diventare ancora di più. Contro il nostro abitare. Facendo scomparire, dal nostro vivere quotidiano, servizi e spazi collettivi. Facendo il deserto. Sostituendoli con edifici e progetti. Programmati secondo il principio della loro sostenibilità economica. Rendita contro lavoro.

Abbiamo vissuto un abitare che ha conosciuto due stagioni. Quella del mattone pieno, quella del mattone finanziario. Il primo a far crescere l’economia spingendo i più, almeno in Italia, ad avere “casa propria” (il 73% delle famiglie). Quando queste sono diventate troppe ecco pronto il secondo. Per riuscire a cavar fuori ancora denaro. Proprio da case costruite per non essere abitate. Da usare come bancomat di cemento. Si è costruito sempre e ovunque. Al di là dell’effettiva necessità. Le case invendute e tenute sfitte in Italia sono oltre 2,5 milioni. Chi le ha realizzate non le conta. Le pesa come proprio “capitale”. Per offrirle alla banca di turno come garanzia. Prendere un mutuo. Portare quel denaro sul mercato finanziario. Alla ricerca di accaparrarsi una rendita che si tiri fuori dalla bassa redditività propria dell’economia della stagione della crisi. Mattoni pieni e mattoni finanziari, si sono retti, si reggono, sulla debolezza dell’abitare. Ieri come oggi. A partire dal non riconoscere l’abitare come diritto di tutti. Le banche sono state gli urbanisti delle nostre città. Legando le famiglie all’indebitamento costruttivo. Impossessandosi delle case di chi non riusciva a pagare il mutuo. Valutando dove far cadere, concedendo o meno mutui, il cemento di turno dentro e fuori i piani.

Ora c’è un cambio di passo. Le banche sembrano aver perso questa regia insediativa. Ora gli urbanisti delle città sono diventati i fondi immobiliari. In Italia se ne contano 400. Si sono impadroniti del patrimonio pubblico dismesso, per fare cassa, dallo Stato. Saranno loro a rimodellare le città. Oggi in Italia il loro portafoglio è gonfio di 53 miliardi di euro. Saranno loro a decidere su quali “pezzi edilizi” e su quali “aree” investire. Loro, fregandosene dei colori e delle sigle dei piani regolatori, inventeranno lo spazio dove saremo costretti a vivere. Saranno loro a rastrellare denaro per i loro investimenti. Da chi vorrà. Dovunque risieda. Da chiunque si disinteressi di cosa diventeranno quegli edifici. Di chiunque aderisca ad un progetto di rigenerazione urbana che, il più delle volte, significa realizzare interventi che si inseriscono nelle fratture urbane delle dismissioni con funzioni estranee al tessuto sociale destinato ad accoglierle. Le carte dei progetti non interessano. Planimetrie e sezioni sono sostituite dalle cedolari di sottoscrizioni con cui i fondi spacchettano in quote quelle cubature per offrirle agli investitori.

Molti di quegli edifici hanno già prodotto del denaro. Quello che i Fondi hanno versato alle Amministrazioni che glieli hanno ceduti. Stanze diventate subito cash. Denaro immediato per lo Stato e per il Fondo di turno attraverso la collocazione delle proprie quote che, quei mattoni e quegli spazi, trasformano in attività finanziaria. Liberare immobili dalle destinazioni originarie e trovare, per loro, una nuova funzione che effetto comporta sulla trasformazione della città? Quello di farla morire privandola, per la prima volta nella storia, del proprio carattere urbano. L’essere la costruzione collettiva per eccellenza. Luogo animato dalle forme di innovazione prodotte, anche in forma di conflitto, da chi la città abita. Il mattone finanziario densifica gli spazi, ma non li urbanizza. Ha bisogno di recidere il lavoro incessante proprio della ricchezza dell’abitare basato sul moltiplicarsi delle relazioni sociali, la rigenerazione urbana praticata a partire dalle convenienze sociali dei più.

Questo compito è oggi affidato alle banche. Sono loro a fare il lavoro sporco. Non concedendo mutui o non promuovendo investimenti sul territorio, ma dirottando il risparmio sul rafforzamento del proprio patrimonio societario. Solo così potranno continuare a mantenere per sé il denaro che ricevono con il quantitative easing. La BCE, infatti, non acquista, per vincoli statutari, direttamente i bond governativi dal Tesoro all’atto dell’emissione. Li compra sul mercato secondario, da istituzioni private quali banche e fondi d’investimento. Tutto resta nelle casse e nulla va al territorio. Sono le banche stesse a dire che non conviene. Non dicono di non saper fare il proprio lavoro. Dicono e inducono, soprattutto i piccoli risparmiatori, a “fare denaro con il denaro”. A sentirsi di “avere una banca” perché hanno promesso loro, al buio di ogni informazione sulla natura delle obbligazioni secondarie, interessi di qualche punto. Gli attuali oltre dodicimila truffati dalle banche salvate da Renzi sono certamente delle vittime. Non solo perché hanno visto sparire i propri risparmi, ma soprattutto perché sottoscrivendo quel patto obbligazionario, si sono visti rubare, oltre il denaro, la città.