Come ti vendo Roma
www.eddyburg.it/article/articleview/19614/0/39/
Data di pubblicazione: 01.11.2012
Autore: Erbani, Francesco
Una nuova, preziosa inchiesta che documenta il fenomeno della svendita dello spazio pubblico nella capitale, inquadrandolo in un contesto europeo. Repubblica on-line, 31 ottobre 2012 (m.p.g.)
Di seguito riportiamo l’editoriale e un’intervista ad Elena Besussi dell’inchiesta, consultabile, con altri articoli e video, all’indirizzo: inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/10/29/news/roma_in_vendita-45511244/
L'Atac vende i preziosi vecchi depositi, ma tra i cittadini è rivolta anticemento
L'azienda del trasporto pubblico della capitale vuole far cassa liberandosi di edifici di archeologia industriale situati in zone centrali e semicentrali. Nasceranno nuovi palazzi in una città affamata di verde? Per vedere come si vendono pezzi di città, bisogna andare a Roma, in piazza Bainsizza, piazza Ragusa e via Alessandro Severo. Quartiere Prati, quartiere Tuscolano, quartiere Ostiense. Tre zone della città storica, molto abitate, tanto trafficate. Qui l'Atac, l'azienda del trasporto pubblico, possiede depositi da anni in disuso. Non sa che farsene e dato che affoga nei debiti (210 milioni nel 2011 oltre a 179 di deficit) ha pensato di venderli. Ma prima di venderli e soprattutto per incassare tanti quattrini non basta un annuncio sul giornale. Occorre una complessa procedura avviata già nel 2004 e proseguita negli anni. Si chiama valorizzazione: quei depositi vanno arricchiti di previsioni edificatorie che, grazie anche a varianti urbanistiche approvate dal Comune, li rendano attraenti, altrimenti nessuno li compra. Sono edifici sorti nei primi decenni del secolo passato, archeologia industriale di pregio, delicate architetture. Devono però diventare piccoli quartieri, palazzi alti anche sette, otto piani, molto commercio, parcheggi, e, se avanzano spazio e soldi, qualche servizio. Cambieranno forma e sostanza. Se era proprio di questo che il tessuto urbano circostante aveva bisogno è un altro discorso.
All'Atac speravano che l'affare scorresse liscio come l'olio. E invece si sono organizzati comitati di cittadini, alcuni depositi sono stati occupati, presidenti di Municipi (le ex circoscrizioni) si sono opposti. E non poche contestazioni hanno fatto leva sulle storie giudiziarie in cui è impelagato il vertice dell'azienda e che attestano l'allegra e familistica gestione dell'Atac (49 assunzioni sospette su 850 avvenute nel solo 2009 - la moglie di un assessore, la cubista, il figlio del caposcorta di Gianni Alemanno... - per le quali sono indagati l'ex amministratore delegato, Adalberto Bertucci e altri dirigenti. E inoltre quattro amministratori delegati cambiati in cinque anni. Superminini di stipendio assicurati a discrezione. Un parco di autobus invecchiato. Una diffusa impopolarità del servizio, nonostante, a causa della crisi, siano più che raddoppiate, fra 2011 e 2012, le tessere di abbonamento annuale.
La vendita dei depositi Atac è un affare da parecchie centinaia di milioni. Riguarda 15 aree edificate e non (depositi, ex rimesse, sottostazioni elettriche, uffici). Tranne un paio, sono tutte in zone centrali o semicentrali (oltre quelle già citate: Portonaccio, Trastevere, Garbatella, Nomentana, Ardeatina) per un totale di 165 mila metri quadrati. Su di esse verranno edificati 540 mila metri cubi. Stando ai calcoli, su ogni metro quadrato di suolo ci saranno 1,08 metri quadrati di costruzione, vale a dire una densità molto alta. Sorgeranno insediamenti massicci, che si svilupperanno anche in altezza, sorpassando gli indici di edificabilità previsti dal Piano regolatore approvato nel 2008 (0,5 metri quadrati su ogni metro quadrato), considerati già abbastanza generosi.
La vendita dei depositi, sulla quale il Dipartimento di studi urbani della Facoltà di Architettura di Roma 3 ha avviato uno studio e organizzato una mostra (curata da Giovanni Caudo, Lorenzo Caiazza, Sofia Sebastianelli e Francesca Romana Stabile), sta dentro una vicenda più ampia: la progressiva dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per fronteggiare la montagna del debito. Una vicenda a scala europea. In Italia se ne parla da un decennio almeno, quando Giulio Tremonti inventò la Patrimonio s. p. a., ma sempre a corrente alternata e con successi scadenti. La legge finanziaria del 2008 - governo Berlusconi - ne fece un perno concettuale. E si avviarono una serie di procedure. Intanto partiva il progetto federalista che fra tante altre cose prevedeva il trasferimento ai Comuni di beni dello Stato con il fine, appunto, di essere valorizzati e venduti. Con il governo Monti la questione è stata rilanciata. E il Comune di Roma ha stilato una nutrita lista delle proprietà che vuol mettere in vendita.
L'obiettivo primario, sostiene chi è favorevole alla cessione, è quello di incassare danaro fresco. D'altronde, si aggiunge, vanno sul mercato beni che non hanno più una funzione e la cui manutenzione, da sola, è già un onere insopportabile per aziende o amministrazioni pubbliche vicine al collasso finanziario. Il problema, si sente però ribattere, è più serio quando si cedono pezzi di città, che cambiano la loro destinazione: vengono calcolati gli effetti urbanistici, per esempio, di un sovraccarico di residenza in quartieri già affollati? Sono prese in considerazione le accresciute esigenze di trasporto pubblico? E perché non si procede in altra direzione, utilizzando alcuni di questi luoghi dismessi, invece che per farci appartamenti a caro prezzo o centri commerciali, per offrire ai quartieri in cui essi sorgono le attrezzature, i servizi di cui c'è bisogno (verde, biblioteche, presidi sanitari), sedi di associazioni o anche abitazioni a costi contenuti?
Il dibattito è acceso. Ma gli uffici dell'Atac, azienda pubblica che agisce con logiche da immobiliaristi, vanno avanti con il loro piano. Una parte consistente degli interventi riguarda i tre depositi di piazza Bainsizza, piazza Ragusa e San Paolo. In questi ultimi due gli indici di edificabilità sono ancora più alti della media cittadina (2,05 metri quadrati di costruzioni su ogni metro quadrato, nel primo caso, 1,85 nel secondo). Il deposito di San Paolo è stato costruito nel 1928. Serviva come ricovero dei tram e le foto dell'Archivio storico dell'Atac, esposte alla mostra dell'università, lo ritraggono non molto lontano dalla basilica di San Paolo, in mezzo ad allevamenti di mucche. Fu un avamposto urbanistico. Lì intorno sorsero le prime case di tranvieri e nei decenni crebbe un quartiere, che oggi è affollato di enormi palazzi. L'edificio è stato inserito nella Carta della Qualità allegata al Piano regolatore di Roma, considerato dunque meritevole di tutela, rappresentativo dell'architettura industriale del Novecento. Lo stesso Piano regolatore lo classifica poi come "servizio pubblico di livello urbano", attribuendogli come destinazione quella di ospitare attrezzature utili al quartiere. Nel progetto dell'Atac, che nel frattempo ha concesso all'Ama, l'azienda dei rifiuti, di parcheggiarvi file di cassonetti, sono invece previste costruzioni per 18 mila metri quadrati (la superficie complessiva dell'area non supera i 10 mila). Che per metà sono appartamenti in cui abiteranno 240 persone. L'altra metà sono negozi e non meglio identificati servizi.
Una procedura simile è adottata per piazza Ragusa e piazza Bainsizza. Il primo deposito è di poco successivo a quello di San Paolo. "Rilevante" viene giudicato il suo interesse architettonico nella Carta della Qualità del Piano regolatore. Si programmano costruzioni per 20 mila metri quadrati. 180 persone andranno negli appartamenti che occuperanno il 30 per cento dell'area. Il 70 è destinato a commercio e servizi. Il deposito di piazza Bainsizza venne realizzato nel 1920 e anche intorno ad esso crebbe il quartiere delle Vittorie, allora prevalentemente riempito di villini, poi sostituiti da alti edifici. Fu un grande sforzo della società dei trasporti, che allora si chiamava Atm e che un decennio prima era stata costituita come azienda municipalizzata - azienda pubblica in concorrenza con i privati - per volontà del sindaco Ernesto Nathan e dell'assessore Giovanni Montemartini. Roma cresceva dove la trascinavano le rotaie dei tram, come non avrebbe più fatto in seguito, quando il trasporto pubblico fu costretto a tener dietro alla città che andava in tutte le direzioni. E i depositi dell'Atm, poi diventata Atac, testimoniano questa stagione mai più ripetuta della capitale. L'edificio è vincolato dalla Soprintendenza e, come quello di San Paolo, figura nella Carta della Qualità. Qui, dove ora stazionano i camioncini dell'Ama, si costruiranno superfici per oltre 15 mila metri quadrati, il 60 per cento degli edifici saranno appartamenti in cui abiteranno 240 persone. Il resto saranno negozi. Verrà salvata la sede del Dipartimento di salute mentale che occupa una parte dell'ex deposito, ma tutto il resto sarà stravolto, dicono gli esponenti di un comitato di cittadini che, sostenuti dal Municipio XVII (che ha votato contro il piano dell'Atac), hanno prodotto una progettazione alternativa, che prevede spazi pubblici per il quartiere, "un quartiere affamato di verde e con un grande fabbisogno di servizi che si troverà un insediamento che quel fabbisogno lo aggraverà".
"La crisi economica è un grimaldello per togliere spazio al settore pubblico"
Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue le vicende nel Regno Unito dove, dice, si seguono principi diversi da quelli in voga in Italia.ROMA - Come ci si comporta in altri paesi quando c'è da trasformare parti di città? Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue queste vicende in Gran Bretagna dove, dice, si seguono principi apparentemente diversi da quelli in voga in Italia. "Nel Regno Unito mancano piani urbanistici vincolanti come in Italia in termini di quantità del costruito e di destinazioni. Il piano c'è ma agisce da guida e nel caso di proposte di trasformazione che divergano dalle indicazioni di piano, l'amministrazione pubblica locale può decidere caso per caso quali benefici e quali svantaggi porta la proposta in sé. Il piano fornisce obiettivi generali, ma quello che si realizza è esito di negoziazioni tra privato e pubblico".
Ma nel negoziato chi esercita più forza, il pubblico o il privato?
"Dipende dai casi. A Clay Farm, periferia di Cambridge, l'amministrazione locale si è rifiutata di accettare la richiesta dell'operatore privato di ridurre drasticamente la quota di residenza pubblica adducendo a giustificazione che il crollo del mercato immobiliare avvenuto nel frattempo avrebbe ridotto il margine di profitti, rendendo l'intervento irrealizzabile. Il privato ha fatto ricorso, ma la sentenza è stata a favore dell'amministrazione di Cambridge. In essa c'era scritto che non si possono scaricare sul pubblico i rischi di investimento del privato".
Quindi le istanze pubbliche prevalgono?
"Non è detto. Alcuni provvedimenti introdotti dal governo conservatore di Cameron indeboliscono la capacità di negoziazione del pubblico. Si preferisce la fattibilità sulla qualità o sostenibilità di un progetto, dove per fattibilità s'intende il vantaggio economico dell'operatore privato, anche a scapito della realizzazione di quelle componenti sociali di un intervento che sono viste, in questa logica, solo come costi. Rimane sempre la discrezionalità ma in un momento di crisi, con previsioni di profitto ridotte, l'ago della bilancia non è a favore di residenza pubblica o infrastrutture sociali. Fino al 2010 esisteva un'unità governativa dedicata all'elaborazione di politiche per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico. Oggi non esiste più".
La crisi penalizza soprattutto la città pubblica.
"L'esito di queste vicende non è sempre scontato. Nell'area di Elephant and Castle, ex-quartiere di residenza pubblica ora dismessa, l'amministrazione locale di Southwark, uno dei 33 boroughs (quartieri) di Londra, ha rinunciato a negoziare con il privato che ha acquisito l'area per costruire alloggi da affittare a canone sociale. La preferenza è andata verso infrastrutture sociali capaci di giustificare il prezzo a cui dovranno essere vendute unità residenziali e commerciali: verde protetto e modelli di spazio pubblico che favoriscono le attività di consumo (negozi, ristoranti, impianti sportivi) piuttosto che attività di socializzazione".
Cambia qualcosa se il proprietario dei suoli è pubblico o privato?
"Non molto. A volte il settore pubblico agisce come operatore immobiliare attraverso società private o a gestione privata. Nella riqualificazione di Kings Cross (nel borough di Camden), per esempio, in cui si stanno costruendo 750 mila metri quadri su 30 ettari dismessi dalla ferrovia, il proprietario è una società del Ministero dei Trasporti, ma è l'operatore immobiliare e gli investitori che rappresenta ad aver deciso cosa e come si realizza. La maggior parte delle aree ad uso pubblico sono diventate di proprietà privata. L'amministrazione si giustifica dicendo che così ottiene spazi pubblici di qualità a costo zero, ma la logica è che le infrastrutture sociali sono considerate un lusso ingiustificato. Ma c'è un altro motivo che diminuisce le differenze fra pubblico e privato".
Quale?
"È l'imposizione del ministero del Tesoro di regole sulla valutazione e vendita del patrimonio pubblico. Questo deve essere dismesso al valore massimo di mercato. In caso contrario, l'ente pubblico proprietario dovrà fare fronte al mancato guadagno con tagli di bilancio".
In tutta Europa si sta andando verso un sistema in cui è sempre più al privato che spetta di decidere che cosa costruire, come, dove e per chi? Oppure esistono paesi in cui prevale il punto di vista del pubblico?
"Dal mio punto di osservazione, il governo pubblico locale non è sempre il migliore alleato della città pubblica. Però anche quando si devono ridurre le spese in infrastrutture o servizi sociali, si possono fare delle scelte a favore di una città per tutti piuttosto che per pochi: a Clays Farm si è difesa la residenza sociale mentre a Elephant and Castle si eliminano pioppi secolari per far posto a un parco che sta dentro le logiche immobiliari del privato. La crisi economica è il grimaldello per avvalorare la tesi che un settore pubblico più ridotto porti benefici sociali. In Grecia, come a Roma, come a Kings Cross. Non vedo paese europeo, dove la riduzione della spesa pubblica da sola abbia dato questi risultati".