Il PRG di Roma, un esempio da non seguire
Alla vigilia della formazione del nuovo governo è utile riflettere su alcuni discutibili, e a volte addirittura perversi, episodi dell'urbanistica della vecchia sinistra. Il PRG di Roma è una buona occasione per farlo. L'Unità, 18 marzo 2013, con postilla
Mentre impazza il toto-nomi per il Campidoglio, il libro di un vecchio leone dell'urbanistica, quello di Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l'Urbanistica Oggi (remake del titolo di un fortunato volume degli anni '60. edizione INU), dà l'opportunità di parlare di Roma, delle trasformazioni dagli anni 80, del dilagare del cemento oltre il Raccordo, fino a far sparire, in molti casi, la cesura fra città e campagna, consumo di suolo e scarsità di servizi. Di parlare anche dei contrasti che, dopo una stagione felice, hanno segnato, con l'arrivo di Alemanno in Campidoglio, la sconfitta di una stagione di progettualità che proiettava Roma nel firmamento delle capitali europee e anche di amministrazione «forte». Basti un dato: nel 1994 Berlusconi annunciò il condono ma a Roma gli abusi scesero (in contro tendenza rispetto al paese) da 300 al mese nel 1994 a 50 al mese nel 1997. Sconfitta tutta politica o sconfitta di quello che per anni è stato chiamato «modello Roma»?
Giuseppe Campos Venuti ha lavorato al Prg di Roma dal 1993 al 2003 (Rutelli Veltroni) ma, al momento della approvazione, tolse la firma, pur confermando stima e fiducia nel sindaco. L'esperienza romana è stata dice «un insuccesso», aggiungendo un riformistico «per ora». L'ossessione della lunga attività di urbanista di Campos Venuti è il contrasto alla rendita: «Si deve a un regime immobiliare completamente dominato dalla rendita urbana» se in Italia si è passati da 47 milioni di stanze negli anni 60 ai 111 milioni attuali, senza risolvere il bisogno di abitazioni sociali, «forzando il reddito delle famiglie all'acquisto della casa, spingendo la finanza verso il settore immobiliare».
Il piano regolatore approvato in consiglio comunale nel 2003 mantiene molte delle caratteristiche originali: cura del ferro, salvaguardia ambientale per il 69% del territorio, 18.000 ettari vincolati a verde, dimensione metropolitana, riduzione drastica delle previsioni del 1962 da un milione di stanze a 350.000. Queste ultime, ricorda Campos, sono una quantità residua difficilmente eliminabile, che il comune propose di distribuire in parte nelle nuove centralità (un quarto a terziario e servizi) in parte trasferendole vicino alle stazioni, per favorire la mobilità su ferro. Operazione che riesce con la nuova stazione Tiburtina (vi lavorò Alfio Marchini). Dov'è, allora, la sconfitta? Nella posizione, scrive l’urbanista, di Rifondazione comunista, alleata del centro sinistra al Campidoglio e alla Regione. Saltò a livello nazionale e regionale la proposta di una nuova legge urbanistica che affidava al Prg una funzione programmatica, condensando quella prescrittiva in 5 anni.
Rifondazione resta legata allo strumento dell'esproprio che si fa, ormai, a prezzi di mercato, impossibili per le vuote casse delle amministrazioni comunali. Non piace al Prc nemmeno la compensazione perequativa che chiede ai costruttori la quota gratuita di verde e servizi. Un maxi-emendamento che Walter Veltroni concorda, in cambio dell’approvazione del Prg, spinge Campos al gesto di rottura: «Cancellava 40.000 stanze direzionali nelle nuove centralità, eliminava le aree di riserva in prossimità del ferro, riduceva 1700 ettari di acquisizioni compensative gratuite quadruplicando le aree da espropriare a prezzi irraggiungibili». La tesi di Campos Venuti è che lo scontro ideologico dei «massimalisti» è andato a tutto vantaggio della «proprietà fondiaria».
Ancor prima si era consumato un altro scontro, al tempo della giunta Rutelli, l’urbanista e l'assessore all'urbanistica Domenico Cecchini da una parte, l'assessore alla mobilità e vicesindaco Walter Tocci dall’altra. Fu Goffredo Bettini a tagliare il nodo, sostenendo gli urbanisti.
Nel libro scritto da Tocci con Italo Insolera e Daniela Morandi, Avanti c'è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma (Donzelli 2008), c'è un paragrafo che si intitola «modestia rivoluzionaria» mentre Campos preferisce orgogliosamente la definizione di «riformista». Ma Tocci non è un massimalista, da assessore alla mobilità scopre il paradosso romano: «A Roma il problema del traffico non esiste». La Prenestina o la Cassia si bloccano tutte le mattine ma «i flussi non sono impossibili, 1000 auto l'ora». Il traffico è un problema a Londra, con un numero di abitanti 3 o 4 volte superiore, mentre a Roma è «una patologia urbanistica». «Se avessimo gestito in modo diverso l'esodo di 600.000 romani nell’hinterland in cerca di migliori condizioni abitative, non ci sarebbe l'ingorgo delle consolari». Il dissenso di Tocci sul Prg si espresse sulle 20 centralità previste dal Prg, «sono troppe, non possono centralizzare alcunché».
Scrive in un documento del 2001, prima di lasciare il mandato: «Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica, nessuna politica della mobilità può risolvere il problema». Le cubature ereditate dal Prg del 1962, sostiene «andavano concentrate dove sono le stazioni di trasporto, soprattutto quelle interne, per riportare le residenze nella città consolidata». La preoccupazione è verso le periferie fuori del Gra, la parte più sofferente della città, che non vota più a sinistra. Walter Tocci pubblica un biglietto di Insolera del 1995, che suona autocritica per l’assessore alla mobilità: «Bisognava rilanciare il tram sulla Prenestina, razionalizzare Centocelle, attaccarci la Togliatti: lì c'è l'utenza, lì è facile, lì ci sono i voti ... La tua scelta è stata opposta: buona fortuna!».
Postilla
Campos Venuti trascura un elemento importante della recente storia, urbanistica di Roma che è ben documentata nelle pagine di eddyburg (vedi in calce). Ciò che sta alla radice della critica al prg Rutelli-Veltroni, il cui padre è stato Campos, è la critica della scelta nefasta di quel piano di considerare diritti acquisiti, quindi non eliminabili se non pagando pesanti indennizzi, le previsioni edificatorie del piano precedentemente vigente. Campos coniò per l’occasione una espressione, all’apparenza indiscutibile, che voleva significare appunto la tesi dell’irreversibilità delle destinazioni urbanistiche: l’espressione “diritti edificatori”, allora de tutto assente nello jure italiano.
Fu grazie all’alibi fornito da quell’espressione che il piano non solo consolidò le aspettative di edificabilità su vastissime porzioni dell’Agro romano ma le ampliò, portando nel suo complesso la quantità di edificazione consentita dal piano ai 70 milioni metri cubi spalmati su 15mila ettari. Quell’errore (tale voglio considerarlo) non fu solo un gigantesco regalo alla rendita immobiliare romana, ma un contributo che fu colto in ogni parte d’Italia da amministrazioni locali incompetenti o disoneste, abbacinate dal mito di una “crescita infinita” delle aree urbanizzate come “motore” dello sviluppo” e giustificarono la loro remissività nei confronti della speculazione come un olocausto che era obbligatorio sacrificare al magico totem dei “diritti edificatori”.
Sull’argomento vedi su eddyburg i numerosi testi raccolti nella cartella Roma , e in particolare il saggio di Vezio De Lucia su Meridiana , la relazione di Paolo Berdini al convegno polis (2002) e il suo articolo per eddyburg (2006) , la nota di Edoardo Salzano sui diritti edificatori e il parere di Vincenzo Cerulli Irelli