PROROGA DEGLI SFRATTI: L'ATTO DOVUTO E LA BEFFA

Un intervento di Paolo Di Vetta (AS.I.A. RdB), scritto per Liberaroma (http://liberaroma.wordpress.com/)

Roma -

Considerare il provvedimento che reitera il blocco degli sfratti per le categorie protette residenti nelle aree metropolitane insufficiente, in colpevole ritardo e inadeguato alle caratteristiche dell’attuale emergenza abitativa, ci aiuta a comprendere meglio le intenzioni governative circa le politiche abitative nazionali e le sue concrete ricadute su una città come Roma.

La precedente proroga, emanata dal governo Prodi e scaduta il 15 ottobre, potenzialmente prevedeva il passaggio da casa a casa per i soggetti interessati e stanziava per questo 550 milioni di euro (per la capitale 40 milioni), mentre l’attuale non solo è limitata alle grandi aree metropolitane ma non prevede stanziamenti utili per i comuni coinvolti. Probabilmente il 30 giugno 2009 la situazione sarà  identica se non peggiorata, riducendo così la funzione salvifica di questo provvedimento a quei pochi casi che nel frattempo non sono diventati morosi a causa del caro affitti, anche per la sensibile diminuzione dei fondi per i bonus casa operata da Tremonti.

Quanto meno benevola la posizione dell’Anci verso questo piccolo decreto, forse condizionata dal previsto piano casa di cosiddetto “housing sociale” che si vede all’orizzonte. Proprio qui troviamo le tracce che ci consentono di guardare in controluce la decretazione del consiglio dei ministri del 17 ottobre 2008. Nella stessa giornata dello sciopero generale, il consiglio dei ministri dà il via libera al decreto che sblocca la realizzazione delle infrastrutture strategiche e vi inserisce dentro la proroga degli sfratti, come per contrapporre a chi protesta per una qualità della vita migliore, un paese fatto di grandi opere, grandi affari e tanto cemento. E con un poco di questo cemento ci facciamo un po’ di “alloggi sociali” da destinare a chi rischia lo sfratto, alle giovani coppie, agli immigrati, agli studenti fuorisede, ai monoreddito, agli anziani, alle precarie.

La definizione di alloggio sociale la troviamo in un decreto interministeriale del 22/4/2008, pubblicato in gazzetta ufficiale il 24 giugno, che introduce i “servizi di edilizia residenziale sociale” (SERS) destinati di fatto a sostituire la vecchia edilizia residenziale pubblica (ERP). Questa nuova tipologia viene santificata dal “piano casa” governativo (legge n. 112/08 art.11), varato esattamente il giorno dopo la pubblicazione di cui sopra.

Housing sociale, questa è la parola magica dietro la quale si cela una nuova cementificazione nazionale giustificata dalla attuale drammatica emergenza abitativa. Dato che gli alloggi vuoti (270mila solo a Roma) non si possono toccare e che comunque è necessario dare risposte soprattutto al cosiddetto ceto medio, troppo ricco per una casa popolare e troppo povero per permettersi gli affitti attuali, non rimane che costruirne di nuovi. Per fare questo servono aree e soldi e il governo sa che ai costruttori interessa solo una cosa: edificare e fare profitti. Su questo assioma si fonda il “piano casa” che si appresta a “delegare” a dei fondi immobiliari pubblico-privati la nuova edilizia sociale nazionale e che prevede una sostenibilità reciproca tra chi l’affitto sociale lo deve pagare e chi detiene la proprietà dell’immobile. Si confida in un’etica di mercato difficilmente credibile, se l’alloggio sociale deve essere una via di mezzo tra l’ERP e il canale concordato non sarà mai il reddito a determinare l’affitto bensì il valore di mercato ridotto di un terzo. Questo vuol dire che parliamo di affitti tra 500 e 700 euro ai quali dobbiamo aggiungere condominio e tariffe. Chi ha un reddito tra 800 e 1500 euro mensili non potrà mai accedere a questo alloggio sociale. Come dire che i 650mila nuclei in attesa di una casa popolare in Italia (2 milioni di persone) sono senza speranza.

A Roma, il neo sindaco Alemanno e l’assessore alla casa Antoniozzi sembrano decisi a fare i primi della classe in materia di housing sociale. Per cominciare un bel bando alla ricerca di aree, anche agricole, da valorizzare (altra parola magica). Su queste aree nuovo cemento privato e qualche migliaio di alloggi sociali assolutamente inaccessibili per i 35mila nuclei in attesa della casa popolare e molto lontani anche per i precari, per chi è monoreddito, per molti under 35 che non riescono a lasciare le proprie famiglie sia come singoli che come coppie, per gli immigrati, per le anziane. D’altra parte Antoniozzi l’ha detto chiaramente, va data una risposta a chi può pagare anche 600 euro di affitto ma a mille non arriva. E gli altri? Per gli altri c’è l’ERP. Ma se i nuovi alloggi sono in social housing e le case popolari vengono vendute e non costruite, di quale ERP parliamo?

Intanto a Roma la soluzione dell’emergenza ristagna tra residence e occupazioni, sostegno all’affitto e picchetti contro gli sfratti, poche assegnazioni e tante sanatorie. In una città dove si è costruito tantissimo si sta decidendo di mettere mano a nuove aree agricole o destinate a servizi, accontentando l’Acer, la Lega delle cooperative e la Confcooperative, gli stessi che continuano a costruire con agevolazioni pubbliche solo immobili destinati alla vendita lasciando inevaso il segmento della locazione permanente perché poco redditizio. Questi sarebbero i soggetti etici con i quali fare alloggi sociali? Oppure è più etico Caltagirone che poco più di un anno fa Bettini/Veltroni definivano una risorsa per Roma? O la Fimit con i suoi fondi ad apporto pubblico tanto considerati dall’ex assessore Minelli?

Di fronte a questi attori è ipotizzabile che l’interesse pubblico ancora una volta si piegherà al patto consociativo amministratori/costruttori che ha trasformato il cuore di questa città tenuta insieme dal cemento della rendita parassitaria. Proprio quella che Alemanno aveva promesso di colpire in campagna elettorale.