TOR BELLA MONACA COSÌ LONTANA COSÌ VICINA.

di Antonello Sotgia

Roma -
  1. Abito, a Roma,  molto lontano da Tor Bella Monaca. In una lingua di terreno, come spesso capita in questa città, stretta e lunga  ritagliata:  tra, a est, il grande parco di Villa Pamphili (180 ettari) con cui confina; e, a ovest, il tessuto frantumato di una parte di quella periferia diffusa che costituisce  la maggiore estensione urbana romana. La grande porzione verde del Parco, all’interno della melassa di villini e palazzine, sembra replicarsi, oltre la lingua, con modesti  slarghi e piccoli vuoti in cui alcuni anziani approfittano di questa pausa concessa da mattoni e cemento, per allestire incerti tavoli per giocare interminabili partite a carte al riparo di altrettanto incerti alberelli. Più o meno ovunque. All’infuori di una discreta rientranza, dove la configurazione di un serbatoio idrico ha fatto, come d’ incanto, saltar fuori una piccola piazza bordata da alberi verso la strada. Nessuno cura però quello spazio, ostaggio dei proprietari di cani. Solo il muro sembra servire; infatti da qualche tempo un enorme manifesto inneggia a un gruppo neofascista.  Un grande lenzuolo cartaceo curato e rattoppato con maestria e dedizione ogni qualvolta che qualche d’uno tenti di staccarlo. Il comune tollera la scritta e non fa alcuna manutenzione. Nessuno però sembra lamentarsi; i proprietari dei cani hanno un’area; per  il degrado basta non guardare. Per il Sindaco Alemanno la zona è evidentemente da considerare  esente dal suo piccone demolitore anche se è “off limits”  e sostanzialmente inagibile.

     

  2.  Perché per questo evidente abbandono urbano Alemanno, come in migliaia di altri simili casi, non ha ricette ? Perché chi ci abita lo fa al riparo di una tipologia, come la chiamano lui e i suoi,” collettivista”? Perché le torri dovrebbero essere poi  più “ invivibili” (sempre come dice lui) dei suoi amati e richiesti grattacieli? Non odia il degrado (a cui, da Sindaco, potrebbe facilmente provvedere inviando una squadra di pulizie)? Ad Alemanno, Roma non interessa;  interessano i luoghi in qualche modo nella città riconosciuti. Sa bene che per chi abita le periferie diffuse romane, che ha saputo facilmente  sedurre a fronte dell’abbandono veltroniano, non potrà mostrare la medesima dedizione, il medesimo affetto che i suoi emuli profondono verso il lenzuolo fascisteggiante a ridosso della lingua che divide Villa Pamphili da una delle tante “Rome”. Sa bene che per esorcizzare i conflitti che potrebbero esplodere dall’abitare nella crisi il modo migliore non è, come hanno fatto le giunte di sinistra, negarne l’esistenza. Ne si dimostra impaurito da chi come sembra fare, a fronte delle sue “ esternazioni”seguendolo sui suoi temi,  un certo pensiero di urbanistica democratica che  richiede “pezzi di città”.  Alemanno ha compreso che questa è la città. Che  non gli è stata consegnata da Veltroni quale figlia dell’ideologia  collettivista. E’ e  dovrà essere la sua città: fatta di allontanamenti forzati delle comunità rom (come aveva iniziato a fare il precedente sindaco), fatta di progetti/eventi capaci di apparecchiare e rendere possibili i soliti esercizi di rendita. Vuole e deve fare i conti con questo. Questo gli è richiesto. Ed ora , che con Roma Capitale e i poteri  assoluti che con questa legge vorrebbe assumere, il gioco potrebbe cambiare. Veltroni era costretto a rivolgersi al migliore offerente prefigurando un piano regolatore delle offerte in cui leggere le  normative tecniche come consigli per acquisti.  Alemanno oggi , quando parla di abbattere case e palazzi, spostare persone, ricostruire edifici secondo precisi modelli (estensivi ovviamente) non parla da urbanista (per carità) e neppure da Sindaco (non solo). 

     

  3.  Alemanno parla come  futuro successore di Berlusconi. Lo fa dopo aver ben studiato e  metabolizzato gli errori e gli eccessi del “capo”. Così non cade nella trappola di impegnarsi in cose possibili da verificare e dover magari, poi, rispondere a chi ne potrebbe chiederne conto. Parla di zone invivibili facendone ricadere la responsabilità sulle case. Non sui paradigmi sociali e storici  che le hanno rese possibili. Propone addirittura come modello “ altro” le casette della Garbatella perché, dice lui, Roma ha bisogno di replicare al proprio interno  quel leggendario modello ovvero: l’insediamento abitativo pensato, all’inizio degli anni venti nel novecento,  per le abitazioni di quei lavoratori di quell’industria che Roma non avrebbe  poi mai avuto. Veltroni ha nascosto la questione abitativa. Alemanno sa che deve riuscire a intercettare e depotenzializzare l’esplodere di una questione urbana. Eliminare le forme possibili del conflitto: le famiglie senza casa, il tanto costruito  inutilizzato, il consumo del territorio e  continuare così a incoraggiare, come sta facendo, quegli esercizi di rendita che, facendo decidere alla “ finanza” il nostro abitare, ci vuole, oggi ,sempre più  schiacciati nella miseria di cui le forme di precarietà dell’abitare risultano implacabili sentinelle. Per questo Alemanno ha bisogno di  puntare sull’immateriale; sull’idea di città. Una città “ altra” per cui non ci sono studi, impossibile da realizzare per costi, di cui risulta impossibile anche pensare a come smaltire le demolizioni, di cui  anche le deportazioni degli sventramenti fascisti non sono che un esile paragone. Un incubo più che un sogno.  Ma che importa. Non ha già registrato e sta registrando, forse, riconoscimenti di merito sull’aver posto il problema delle trasformazioni urbane? Una città altra per cui indica , molto materialmente tuttavia, come sempre:  il consumo di nuovo spazio, il bruciare  nuovo territorio che, oggetto di trasferimenti e destinato ad accogliere i nuovi abitanti, dovrà necessariamente essere inserito al’interno dei soliti meccanismi della rendita. E sempre la solita storia per rafforzare il dominio: attraversare  le strade della città per plasmane le forme della vita, fissare i tempi, organizzare il lavoro. E’ questione urbanistica da combattere richiedendo piazzette e panchine ?